A partire dal mese di marzo, Daniele Mastrolitti ha prestato servizio come volontario umanitario presso il centro di accoglienza Hosir di Hrubieszów, in Polonia, a 25 km dal confine con l’Ucraina e poi con la Croce Rossa sul confine. Dall’inizio della guerra il centro ha ospitato fino a 7000 persone in un giorno. Nell’epoca dei fotomontaggi strategici e della propaganda terrorista, le storie di queste persone raccolte dal volontario e fotografo Mastrolitti emergono per mostrare una verità fatta di lividi, stanchezza e lacrime.

Gli occhi di Tetiana

La signora Tetiana è arrivata a Hrubieszów da Kharkiv, la città più martire dell’Ucraina. Ha deciso di scappare dalla sua amata città solo di recente e la sua scelta è stata dettata da una necessità improrogabile: la perdita della vista.

Quella mattina, la guerra era iniziata da più di due mesi, Tetiana si era svegliata ringraziando Dio di poter vedere la luce di un nuovo giorno. Poi le bombe, proprio nel suo quartiere. Una bomba da 500 kg è caduta non lontana da casa sua e ha frantumato i vetri delle finestre con la sua onda d’urto. Minuscole schegge di vetro e detriti hanno investito il suo viso, causando la perdita della vista e numerose contusioni facciali

Ora la signora Tetiana, munita di un manico di scopa e occhiali scuri, è partita verso la Germania per sottoporsi ad un intervento chirurgico per recuperare la vista.

Oksana, che è scappata dall’Ucraina per i suoi nipoti

La signora Oksana invece è arrivata da Luhansk. Lei ha visto la guerra per la prima volta quando era una bambina e sperava di non doverne vedere un’altra, in Ucraina. Aveva una casa, una famiglia, dei figli e dei nipotini. I suoi figli, mi ha raccontato, si erano da poco trasferiti vicino alla sua città, avevano trovato un lavoro e un nido per la loro famiglia. Ma la vita aveva altri piani.

Oksana, che ha più di ottant’anni, non voleva andar via da casa. Avrebbe preferito rimanere nella sua Luhansk fino alla fine dei suoi giorni. Poi i suoi figli e i suoi nipoti l’hanno convinta: non poteva restare lì. E allora via a piedi, per cinque, dieci chilometri, finisci per non contarli neanche più

Con dei mezzi di fortuna ha raggiunto Dnipro, poi da lì in treno fino a Leopoli e poi ancora in autobus fino a Hrubieszów. Cinque giorni di viaggio. La accompagno sotto braccio al suo letto, è provata dal viaggio e dalla tragedia di una vita lasciata in una casa che ora non esiste più, in una città che non esiste più.

La corsa in taxi verso Leopoli di Valeriia

In un pomeriggio di insolita calma, durante un turno di servizio con la Croce Rossa Polacca presso la dogana di Dolhobyczów, è arrivata a piedi una signora di una certa età, visibilmente stanca. Si chiama Valeriia, viene da un piccolo paesello nell’Oblast di Luhansk e porta con sé solo delle buste di plastica piene di vestiti, cibo e acqua. La signora Valeriia ha varcato il confine a piedi dopo un viaggio interminabile, che si è concluso con una corsa in taxi da Leopoli costata una cifra non meglio definita.

Ho mostrato la borsa con i miei risparmi all’autista, lui ha preso tutto e mi ha portata fin qui

In uno slancio di fiducia nel genere umano, voglio pensare che l’autista sia stato onesto e che non abbia approfittato della situazione. Pochi minuti dopo le squilla il telefono e dall’altro lato una giovane voce preoccupata chiede «Babushka, quando arrivi? Ti aspettavamo già oggi, dove sei?». Valeriia trattiene a stento le lacrime, rassicura la nipotina e poi si abbandona al pianto.

Ci ha raccontato che nel suo paese non ci sono sirene antiaeree e le bombe sono cadute senza che nessuno si aspettasse nulla. In pochi minuti si è scatenato il caos. Le urla, la distruzione, la morte, la fuga per la vita. Il suo racconto si conclude dicendo che per giorni interi non hanno potuto nemmeno seppellire i cadaveri, che sono rimasti agli angoli dei marciapiedi, senza alcuna dignità. Troppo pericoloso uscire dai rifugi per seppellirli.

L’ho rincontrata a Hosir il mattino seguente, pronta a partire verso Częstochova. Mi ha poi chiamato per dirmi che tutto era andato secondo i piani e aveva raggiunto sana e salva la sua nipotina che tanto si era preoccupata nel non vederla.

La storia macabra di Olesia e della sua gatta Prinsesa

La storia più macabra me l’ha raccontata la signora Olesia. Quando per lei è arrivato il momento di lasciare Mariupol, la città era ormai perduta ed era già caduta in mano nemica. Olesia ha oltre sessant’anni e ha dovuto lasciarsi alle spalle suo padre, che non sarebbe mai riuscito a scappare e ha quindi deciso di restare nella sua città.

Ci ha raccontato della sua fuga rocambolesca da uno di quegli autobus che, con l’inganno, portano gli ucraini in Russia. È andata via a piedi e ha passato la notte in un rifugio di fortuna.

Le bombe continuavano a cadere poco fuori dalla città e la signora Olesia ha deciso di ripararsi in un edificio che già era stato colpito. Circondata da cadaveri, pensava che non avrebbe mai visto le luci dell’alba. Era convinta che la bomba successiva sarebbe piovuta proprio sulla sua testa. Fortunatamente, non è stato così

Con notevole sforzo e affidandosi alla sorte, è riuscita ad arrivare a Dnipro, da dove ha preso il treno per Leopoli. Quando alcuni nostri volontari l’hanno trovata, la sua percezione della realtà era pesantemente distorta. Ha chiesto di essere portata in Polonia. E così è stato. È giunta in Polonia illesa nel corpo e accompagnata dalla sua gatta Prinsesa, ma – dice – non è più sé stessa e non sarà mai più sé stessa.

Le cose che non si possono raccontare

Poi ci sono cose che non ascolti dalle voci degli ucraini, ma trapelano dal loro linguaggio corporeo e dai loro comportamenti istintivi e sottili. Durante un turno di notte nel centro Hosir, ho fatto caso a due persone e al modo in cui dormivano.

Ho osservato dormire un ragazzo molto giovane su una delle brande sistemate sul parquet della palestra. Dormiva vestito e con le scarpe, era appena arrivato e sarebbe partito poche ore dopo con uno dei treni che giornalmente trasportano i profughi verso Cracovia o Varsavia.  Aveva gli occhi chiusi ma la presa con cui teneva il manico della sua valigia era talmente forte e febbrile da fargli impallidire le dita. Probabilmente quelle erano le ultime cose che gli erano rimaste dopo la fuga e temeva di perderle insieme a tutto il resto

Qualche branda dietro di lui, un uomo anziano dormiva sotto una coperta. Non ho potuto non far caso al cappotto e alla coppola che indossava come se fossero un pigiama. Forse era semplicemente troppo stanco per pensare di toglierseli o forse in fondo temeva che sarebbe stato necessario andare via in fretta ed era meglio essere pronto ad affrontare il freddo della notte. Per rispetto nei loro confronti, ho preferito non fotografare questi due ospiti durante il loro sonno, ma le immagini di queste due persone rimarranno indelebili nella mia memoria.

Così come le loro, ci sono milioni di storie diverse. Alcune verranno raccontate, altre tacciono nelle fosse comuni disseminate sotto le macerie delle città martoriate dalla guerra.

Foto: Daniele Mastrolitti