Scritto prima del massacro del 7 ottobre 2023 e di tutto quello che ne è conseguito, questo memoire è il racconto autentico che ci rivela che anche a Gaza i grigi contano. La dicotomia tra israeliani buoni e Hamas cattiva, e successivamente cattivo diventa l’esercito con la stella di David che fa piazza pulita nella Striscia, va bene per le cronache dei giornali. Qui, in questo libro pubblicato dalle Edizioni e/o, La ribelle di Gaza, scritto da Asma Alghoul insieme allo scrittore ebreo di origine siriana Sélim Nassib, scopriamo una Gaza dalle mille facce, divisa tra chi sostiene Hamas e chi vuol solo vivere in pace, dove una ragazzina, poi giovane donna, trova la sua strada senza piegarsi all’inevitabile. Asmaa Alghoul è una giornalista palestinese nata nel 1982 nel campo profughi di Rafah, nel sud della Striscia di Gaza. Per la sua attività giornalistica da Gaza nel 2010 ha ricevuto una borsa Hellman/Hammett da Human Rights Watch. Nel 2012 le è stato conferito il Courage in Journalism Award dalla International Women’s Media Foundation. Oggi vive nel sud della Francia e collabora con varie testate internazionali. Selim Nassib è nato e cresciuto a Beirut in una famiglia ebraica di origine siriana. Trasferitosi in Francia nel 1969, ha lavorato come giornalista, ed e stato corrispondente di Liberation dal Medioriente. Le Edizioni E/O hanno pubblicato Ti ho amata per la tua voce, L’amante palestinese e la raccolta di racconti Una sera qualsiasi a Beirut. Asmaa nasce nel campo profughi di Rafah, nel Sud della striscia di Gaza, in una grande casa per un grande famiglia, costruita dai nonni, rifugiati della prima ondata di palestinesi scacciati dalla propria terra. Il padre è una persona colta e di mente aperta, uno degli zii milita invece nel movimento islamista di Hamas e non vede di buon occhio la ragazza spigliata, intelligente e ribelle che diventa Asmaa. La vita di Asmaa, come quella di tutti gli abitanti della striscia, è scandita da due costanti: da una parte la rivalità insanabile tra i due gruppi politici dominanti nel paese, gli islamisti di Hamas e l’autorità palestinese, Al Fatah; dall’altra la pioggia di bombe e missili che Israele riversa su Gaza ogni pochi anni. È come se alla popolazione fosse dato di scegliere solo tra fanatici religiosi e militari feroci. Asmaa è diversa, di idee liberali, musulmana credente, giornalista intraprendente che va sul campo a documentare la quotidianità devastata della gente innocente, voce fuori dal coro che si attira ben presto le minacce di tutti. Le parole di Asmaa Alhoul ci portano nella vita di Gaza, un attimo prima dell’ultima tragedia. Fabio Poletti

Asmaa Alghoul Sélim Nassib
La ribelle di Gaza
traduzione dal francese di Alberto Bracci
2024 Edizioni e/o
pagine 230 euro 18

Per gentile concessione degli autori Asmaa Alghoul e Sélim Nassib e dell’editore e/o pubblichiamo un estratto dal libro La ribelle di Gaza

Finirai nel fuoco

Da bambini giocavamo molto ad “arabi ed ebrei”. Gli uni si nascondevano, gli altri li cercavano. In genere i maschi facevano gli ebrei e noi femmine gli arabi, perché gli ebrei sono più forti e più brutali. Nessuno ragionava su cosa volesse dire, non facevamo politica, l’importante era divertirci. Era un gioco che ci piaceva molto e che di solito facevamo per strada, ovviamente quando non c’era il coprifuoco.
Nel campo profughi di Rafah in cui sono cresciuta non dicevamo mai “gli israeliani” e neanche “l’esercito”, dicevamo “gli ebrei”, per esempio “Stanno arrivando gli ebrei!”. Per me, ebreo significava paura. La notte, stesa sul materasso a terra, pensavo ai bombardamenti, alla morte, agli aerei che passavano lacerando i tetti. Guardavo la grossa scatola gialla di latte in polvere Nido sopra l’armadio. Era la cosa più costosa che si potesse comprare al campo. I comuni mortali bevevano il latte senza marca dell’UNRWA, l’agenzia delle Nazioni Unite che si occupa dei profughi palestinesi. Pensavo: “Dio, perché non sono una scatola di Nido?”. Tutti la rispettavano, veniva tirata giù per versare un cucchiaio di latte in polvere nel tè e subito rimessa a posto, era circondata da sguardi. Io invece passavo le giornate a sentirmi dire: «Finirai nel fuoco, andrai all’inferno!» ed ero convinta che sarei bruciata tra le fiamme.
I soldati facevano sempre irruzione in casa nostra dalla porta di dietro, quella di camera mia. Certe volte mi svegliavo di soprassalto e gridavo: «Mamma, mamma, stanno arrivando gli ebrei, sento gli stivali!» e lei rispondeva: «Ma no, è il rumore della sveglia… Dormi, dormi». Il crepitio della pioggia sulla lamiera, il tic-tac della sveglia e l’irruzione dei soldati: tre cose che nella mia testa sono mischiate per sempre. La mia vita era prigioniera di quei momenti di angoscia e tristezza. Quando uno è felice si aspetta sempre che sopravvenga qualcosa di bello, anche se non succede spesso. La tristezza è più costante, si addice di più al mio carattere, si armonizza alla mia indole. Nel 1987, quando è scoppiata la prima intifada, avevo solo cinque anni, ma ho ancora nelle narici l’odore dei gas lacrimogeni. Hamas è stato fondato in quello stesso anno, ci sono cresciuta insieme. Era un mondo stabile e triste. I miei zii facevano parte di Hamas, è per quello che gli israeliani ci piombavano in casa di notte e mi terrorizzavano.
Eppure da piccola ero andata in Israele. Nonno Jomaa, il padre di mio padre, lavorava lì in un albergo, cosa che aveva aiutato a farlo ricoverare in un ospedale di Tel Aviv quando aveva avuto problemi di cuore. Mi avevano portato a trovarlo. L’autobus in cui eravamo seduti si era fermato in una stazione di servizio e il benzinaio si era messo a lavare i finestrini con una pompa. Il getto usciva dal tubo e colpiva il vetro imbrattandolo d’acqua, io avevo strillato dalla paura. In ospedale ho preso l’ascensore per la prima volta in vita mia. Quando la porta si è riaperta c’era un ambiente completamente diverso, non ci capivo niente. Ho chiesto alla nonna: «Abbiamo viaggiato, téta? Abbiamo viaggiato in questo… questo…». Non sapevo nemmeno che si chiamasse ascensore! Più tardi ci siamo ritrovati seduti sul prato dell’ospedale. Tutto quel verde intorno a noi: non credevo ai miei occhi! Nel campo in cui vivevo non c’era niente di verde. Il nonno guardava insieme a me le donne stese sull’erba a capo scoperto in compagnia dei familiari. «Quella ha il cancro, quell’altra è malata di cuore… Quelli sono i figli che sono venuti a trovarla». In quel giardino ho scoperto che gli ebrei erano persone normalissime, non riuscivo a credere che fossero davvero ebrei, mi sono convinta
solo sentendoli parlare ebraico. Fino a quel momento avevo creduto che tutti gli ebrei fossero soldati.
Quel nonno era un uomo aperto, mi ha insegnato la tolleranza nei confronti degli altri popoli. Prima che io nascessi aveva invitato mio padre a fare una vacanza in Israele, non provava il minimo odio e trovava normale che il figlio imparasse l’ebraico. Parlava del principale israeliano con molto rispetto e apprezzava il lavoro che faceva, responsabile dei camerieri del- l’albergo. Mi ha fatto vedere alcune foto scattate a Tel Aviv di lui e nonna con un bel vestito, braccialetti e capelli al vento. Certi suoi figli si erano affiliati a Hamas, ma non lui. Viveva tra i soldati che attaccavano casa nostra da un lato e il principale israeliano a cui voleva bene dall’altro. Tornava da Israele con dolci dai sapori insoliti, una quantità di cose deliziose, e mi regalava mezzo shekel. Era molto, le altre bambine della scuola ricevevano come paghetta un centesimo di mezzo shekel. All’epoca quelli che lavoravano in Israele erano considerati ricchi.
Ciò nonostante preferivo l’altro nonno, Abdallah, il padre di mia madre. Anche lui ci aveva portato in Israele in una fat- toria in cui faceva il bracciante, la più bella gita della mia vita! Il cielo era popolato da una moltitudine di uccelli e c’eravamo messi a cantare per loro L’uccello del giovedì mi ha portato una camicia. In arabo, “giovedì” fa rima con “camicia”. Ci aveva fatto raccogliere delle piante che avevamo portato a casa. Gli volevo veramente bene. Un giorno in cui a Rafah pioveva era- vamo seduti sotto il suo ulivo e di colpo ho provato la stessa emozione che provavo quando leggeva il Corano ad alta voce. In quel preciso momento un piccione me l’ha fatta addosso, mi capita sempre, ma il nonno ha detto: «Non te la prendere, porta fortuna, riceverai una buona notizia».
Si dice “striscia di Gaza” o “Gaza” per indicare il territorio, ma Gaza è anche il nome della capitale. Come per noi Israele era un altro mondo, così lo era pure la città di Gaza. La prima volta che ci sono andata ero sbalordita, perché venivo dal
campo profughi di Rafah, una quarantina di chilometri a sud, in cui non c’era niente, e penetravo in un mondo così vasto che era impossibile conoscerlo tutto. Quel giorno mia zia mi aveva portato a un matrimonio della buona società di Gaza. Sgranavo gli occhi nella lussuosa villa circondata da alberi con garage per le macchine, uomini in abito scuro e donne eleganti a volto scoperto senza niente in testa. Quindi esistevano palestinesi ricchi! Stentavo a crederci. Io ero vestita bene perché mio padre lavorava negli Emirati e da lì mi spediva sempre bei vestiti. Avevo un cappellino a fiori e di colpo mi ero resa conto di averlo dimenticato sul taxi collettivo. Arrabbiatissima, avevo ritrovato l’autista: «Stupido, te ne sei andato con il mio cappello!». Invece il poverino era tornato indietro per riportarmelo. Non avevo ancora cinque anni ed ero già insopportabile.

titolo originale: L’insoumise de Gaza
© Calmann-Lévy, 2016
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