L’amore e la guerra nelle ex colonie. C’è tanto in questo La Leonessa di Francesco Ferracin, pubblicato dalle Edizioni Linea. Tratto da una storia vera, dai diari originali della protagonista, il romanzo attraversa il tempo e lo spazio. Il libro ripercorre avvenimenti epocali come la nascita della Repubblica democratica tedesca, l’insurrezione del ’53 e la costruzione del muro di Berlino sino ad arrivare alla Nigeria postcoloniale e alla guerra del Biafra che suggerisce parallelismi geopolitici con i teatri di guerra odierni. Francesco Ferracin nasce a Venezia nel 1973. Il suo debutto letterario avviene nel 2008, con il romanzo hard-boiled Una vasca di troppo pubblicato da Fanucci. Nel 2009 comincia la sua collaborazione con Franco Battiato con il quale ha cosceneggiato il film Handel e portato in scena il melologo L’incubo della farfalla, liberamente tratto dal suo omonimo poema. Per Linea Edizioni ha scritto i romanzi Technoshock nel 2018, Venezia Sunrise nel 2019, L’incubo della farfalla nel 2022 e Feroce nel 2023. Francesco Ferracin vive fra Berlino e Venezia e si dedica allo sviluppo e alla scrittura di romanzi, film, serie televisive, opere teatrali, videogame e progetti trans-mediali. La Leonessa è ispirato a una storia vera. Berlino Est, 1964. La ventiduenne Friederike “Rike” Beck è una studentessa dell’Università di Potsdam. Madre di una bambina di sette anni, avuta da una relazione con Klaus, il suo primo marito, un uomo violento e pericoloso, a Berlino conosce Alexander Onyemo, uno studente di ingegneria nigeriano. I due non potrebbero essere più diversi tra loro. Contro ogni convenzione sociale, Rike e Alex cominciano a frequentarsi e la loro relazione sentimentale li porta alla nascita di una bambina. Decidono di sposarsi e, una volta terminati gli studi, di andare a vivere a Enugu, in Nigeria, dove Alex sarà destinato a ricoprire una posizione di prestigio presso la più importante compagnia mineraria del paese. L’impatto con l’Africa è al principio traumatico, ma in pochi mesi Rike entra a far parte dell’élite locale, composta soprattutto da bianchi provenienti dai più diversi paesi occidentali: uomini d’affari con le loro mogli, diplomatici, spie. Ed è proprio all’interno dei club da essi frequentati che Rike si rende conto che il paese è sull’orlo di una guerra civile. Fabio Poletti
Francesco Ferracin
La Leonessa
2024 Linea Edizioni
pagine 650 euro 18
Per gentile concessione dell’autore Francesco Ferracin e dell’editore Linea pubblichiamo un estratto dal libro La Leonessa
12 luglio 1967
Mathilde e Christa sono in giardino con Emmanuel quando la camionetta dell’esercito entra a tutta velocità nella piazzola antistante la casa. Li osservo dal terrazzino a piano terra mentre allatto Prudence con un biberon.
Alexander scende dalla porta sinistra. Dal retro saltano giù cinque soldati e si mettono in riga in attesa di ordini.
L’autista aspetta al posto di guida, col motore acceso. Gli andiamo incontro e mi lascio abbracciare.
Avevo passato la mattinata ad ascoltare tutti i notiziari radio su cui mi sono riuscita a sintonizzare. Cyril seduto sulle scale, le gambe che vibravano nervosamente e i pugni serrati.
Le truppe governative avevano sfondato a nord e avevano occupato le città di Ogugu e Nsukka, e, verso il Camerun, Ogoja e Obudu.
Gowon l’aveva chiamata “operazione di polizia” perché il governo nigeriano, come quasi tutti gli Stati del mondo, non aveva riconosciuto la nuova nazione che il colonnello Ojukwu aveva proclamato il 30 maggio del 1967, innalzando sul tetto del palazzo governativo di Enugu la nuova bandiera rosso-nero-verde col sole nascente. Il nuovo Stato di cui lui era il primo presidente si chiamava Biafra, l’antico nome che gli europei avevano dato alla regione ad est del fiume Niger, e comprendeva tutto il territorio della Regione Militare dell’Est.
Era stata una decisione inevitabile, ci aveva detto Chuck una sera che era venuto a cena da noi con la moglie, il colonnello Banjo, il tenente colonnello Chukwuka e il maggiore Ifeajuna, i golpisti di gennaio di fresco rilasciati dalle patrie galere per essere riabilitati e promossi dal nuovo presidente. Banjo e Ifeajuna li conoscevo già, ma, dopo tutto quello che avevo sentito dire sul loro conto, i brutali omicidi di cui si erano macchiati, non avrei permesso ad Alexander di invitarli. Quelli però erano tempi eccezionali, mi aveva detto mio marito a cose fatte. E a Ojukwu servivano alleati, non nemici e visto che Gowon, probabilmente sotto la pressione del colonnello Murtala Muhammed, l’uomo forte del nord, aveva tradito gli accordi che avevano sottoscritto in Ghana, al governatore non era rimasta altra scelta che fare quello che gli igbo avrebbero dovuto fare già da un pezzo.
«Un grande successo!» mi aveva detto Alexander quando era tornato a casa da Aburi, l’8 gennaio di quest’anno. La mia gravidanza aveva cominciato a darmi problemi già durante il concerto di Fela Kuti, la notte di Capodanno del 1966, e l’idea che l’uomo che amavo avesse potuto non tornare vivo dal primo incontro ufficiale del governo nigeriano con la regione ribelle, aveva peggiorato le mie condizioni, costringendomi a letto per alcune settimane. Un brutto calo di pressione, mi aveva detto il dottore, prescrivendomi i soliti ricostituenti e, in caso di necessità, dell’aspirina. Ma non era come era stato con Ulrich. Questa volta era tutto il mio corpo a ribellarsi, a farmi sentire inutile, impotente, e irresponsabile a voler mettere un altro bambino al mondo.
Mi aveva raccontato che Chuck era riuscito, con la sua dialettica, ad abbindolare Gowon e a fargli sottoscrivere un concordato che prevedeva il passaggio della Nigeria da federazione a confederazione di Stati, con maggiori poteri ai governatori e la gestione indipendente delle risorse del territorio, ossia il petrolio. Una soluzione che fino al giorno prima di partire per il Ghana sarebbe stata impensabile. Alexander aveva tessuto gli elogi del suo vecchio compagno di scuola come mai aveva fatto, dando anche a sé stesso il merito della trappola in cui avevano fatto cadere il supremo consiglio militare al completo che, da plotone d’esecuzione, s’era trasformato in vittima dell’intelligenza e della caparbietà per cui gli igbo andavano famosi.
Proprio così mi disse, e mi fece accapponare la pelle pensando alle nefaste conseguenze che poteva avere quel modo di pensare. «Eravamo gli unici con un piano politico, economico, strategico stampato nero su bianco.» Mi aveva spiegato. «Agli slogan di Gowon, Awolowo e Muhammed, noi abbiamo risposto con i fatti. Fatti inconfutabili. E tutti a nostro vantaggio.»
«Avete giocato a poker.»
«E abbiamo vinto.»
Una vittoria di Pirro, purtroppo. Perché, una volta tornato in patria, Gowon si era reso conto di essere caduto in un tranello di natura semantica, e neppure quattro mesi dopo si era rimangiato la parola e le firme apposte sul documento mediato dalle potenze occidentali, varando un decreto che frantumava la Nigeria in dodici Stati. La regione governata da Ojukwu sarebbe stata divisa in tre, togliendo così alla maggioranza igbo, di fatto, il controllo del delta del fiume Niger, e dei giacimenti petroliferi.
Dopo un lungo tira e molla, Ojukwu aveva giocato il tutto per tutto, e si era appellato all’inalienabile diritto
all’autodeterminazione dei popoli, tacendo il fatto che gli igbo erano solo la maggioranza, non la totalità della popolazione del Biafra, composta anche da una dozzina di gruppi etnici minori.
Alexander mi aveva detto che non era stata una decisione avventata. Alla base c’erano mesi, anni di contrattazioni con gli inglesi, e con i rappresentanti delle due maggiori compagnie petrolifere che gestivano l’estrazione del greggio: la British Petroleum e la Shell, unite nella joint venture Shell-BP.
Gowon aveva reagito sancendo un embargo alle importazioni e alle esportazioni del Biafra, stazionando la minuscola flotta nigeriana, una fregata e sei piccole motovedette, davanti alla costa della regione ribelle.
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