Tumaranké – parola che in lingua bambara definisce chi si mette in viaggio alla ricerca di un futuro migliore – è il risultato del progetto Re-future che ha coinvolto il gruppo di minori in un workshop di educazione all’immagine e filmmaking: un percorso lungo un anno per sensibilizzare e stimolare il loro sguardo sulla realtà e imparare a esprimersi utilizzando in modo più consapevole lo strumento che ognuno di loro ha in tasca, lo smartphone. Qui il promo del film.

Quando una mia collega molto attiva nel sociale è venuta da me con un articolo di giornale che parlava di un gruppo di giovani donne che a Siracusa aiutavano i minori rifugiati non accompagnati facendo loro da tutori e mi ha chiesto se mi andava di lavorarci, io ho reagito subito in modo difensivo: «perché lo chiedi a me? non ho le competenze; sicuramente ci sono persone più adatte». Lei – che mi conosce – intuisce subito, dalla mia risposta, l’azione congiunta di due potentissimi fantasmi: ipocondria e senso di colpa… «tranquilla Camilla, non ti sto chiedendo di aiutarmi con le vaccinazioni». E cosa allora? Nella mia testa non c’era nulla che io potessi fare per loro (o con loro?). Non lo so, mi fa lei, potremmo inventarci qualcosa, raccogliere le loro storie.

Ecco: raccontare una storia. Chi è capace di farlo esce miracolosamente dall’anonimato. Finché non racconterà la sua storia resterà un migrante e basta. Un essere senza identità, se non quella di un esule. La stessa parola “migrante” – che lascia indeterminati tanto la meta quanto il punto di partenza – non è forse l’incognita di una storia? Ma imparare una lingua è un processo lungo e faticoso.Facendo delle ricerche ho scoperto una cosa apparentemente incredibile. La maggior parte delle persone che sbarcano ogni settimana sulle coste europee fuggono da zone di guerra, di carestia, hanno letteralmente perso tutto, in certi casi non hanno nemmeno le scarpe – portano però quasi sempre con sé, uno smartphone. Può sembrare assurdo, ma se ci pensate la cosa è abbastanza naturale: chi cerca di sbarcare in Italia a volte ha la necessità di avvisare chi è rimasto a casa, o tra i più fortunati c’è chi vorrebbe capire come raggiungere un parente, un amico che è riuscito a trovare un lavoro in Europa. Un tempo tutto questo era molto complicato e caro, oggi no. Oggi basta un wi-fi.

Lo smartphone non è solo un mezzo per comunicare, lo smartphone è il mezzo che tutti usano per raccontarsi. Le foto, i video, i social. Questi ragazzi possono anche avere difficoltà a comunicare con le parole, ma sono dei millenials, e come molti di noi, condividono le loro storie attraverso i loro smartphone, attraverso video, fotografie e social media. Si tratta di insegnare loro come organizzarle, come articolarle in un linguaggio; qualcosa di simile a quello che succede con la lingua normale (parlata e scritta), dove ci sono una sintassi e una grammatica, soltanto in un modo più immediato e fisico. Insegnare a chi arriva a raccontare una storia attraverso le immagini. Trasformare un cellulare in un mezzo di “integrazione”. La parola non mi piace, diciamo così: usare lo smartphone come un “ponte” fra le persone che arrivano e quelle che dovrebbero accoglierle. Questo era, ed è, il nostro obiettivo. Al primo incontro a Siracusa ero emozionata ed eccitata, feci un bel respiro ed iniziai: «Vi insegneremo ad usare il cellulare per raccontare una storia. La vostra». Presa dalla foga, mentre illustravo il progetto, non avevo notato che nessuno dei ragazzi mostrava segni di interesse. Mi fissavano o peggio guardavano per terra annoiati. Mille dubbi mi assalirono. Forse non capivano, avevo usato parole sbagliate, o forse tutto questo non aveva nessun senso, questi ragazzi non avevano bisogno di me. Cosa avevo da dire io? Chi ero io, con la mia storia, la mia bella vita a quei ragazzi che fuggivano da chissà dove? Stavo sbagliando qualcosa. Di fronte all’ennesimo silenzio, trovai una semplice formula magica: «Ma insomma, non dovete per forza raccontare una storia. Potete anche parlare di… Cosa vi piace?» Un ragazzo all’ultimo banco alzò la mano e rispose: «Fast and furious».

Sono passati diversi mesi da quel primo giorno. Il mio computer contiene ora centinaia di video girati dai ragazzi, molti di questi sono confluiti in un documentario fatto solo con i loro video, di cui siamo molto fieri. La cosa più impressionante è che ogni autore ha uno stile diverso dagli altri. C’è chi decide di girare un documentario sullo stile di vita nel centro di accoglienza, chi riprende il modo in cui i ragazzini di Siracusa guidano il motorino; Ahmed punta la telecamera fissa su degli oggetti. Avrò visto il suo materiale decine di volte, eppure non avevo notato che un albero dai mille rami, di quelli tipo mangrovie, nascondeva un uomo immobile sui rami, le gambe leggermente penzoloni. Dopo una lezione di direzione della fotografia, Lamin ha fatto un video nel quale si riprende mentre viene inghiottito dal buio; rimangono visibili solo i denti bianchissimi.

Ognuno di noi ha dei pregiudizi. Spesso non sapere di averne è la cosa più pericolosa. Conoscere queste persone attraverso i loro film mi ha fatto scoprire quali erano i miei. Non solo i miei preconcetti sui migranti, ma anche quelli sul valore dell’arte e sul suo scopo. Mi sono resa conto che nella mia testa la vita di queste persone, la “parte” che attribuivo loro nella mia personale sceneggiatura, era quella delle “vittime”. Dentro di me avevo già scritto la loro storia. Certo, c’è chi, fra le persone che hanno partecipato al corso, ha deciso di raccontare, con grande coraggio, anche esperienze terribili. Ma chi ha scelto altre strade non l’ha fatto necessariamente per paura o a causa di un meccanismo di rimozione. Il loro occhio era attratto da altri oggetti. E proprio questo mi ha fatto capire una cosa importante sull’arte. E cioè che parole d’ordine come “problema dell’integrazione” e “ruolo dell’artista” sono strettamente imparentate. Chi dice che un film deve servire una determinata causa veicolando un messaggio, spesso non si comporta diversamente da quegli sceneggiatori pragmatici che sostengono che un film deve contenere, per avere successo, un determinato numero di scene di sesso o di inseguimenti a seconda del genere. Gli scrittori, a volte, non fanno altro che assecondare quelle sceneggiature latenti che sono le attese del pubblico. La spiegazione che si dà di questo fatto, in genere, è che la gente non è ancora pronta per un tipo di narrazione diversa, che non bisogna tradire le aspettative… che le persone non sono preparate alle grandi novità.

Ma c’è anche un’altra ipotesi che vale la pena di considerare. Scrive un grande filosofo: «quelli che dicono di non amare l’arte contemporanea perché non la capiscono sono, in realtà, persone che la capiscono fin troppo bene». Raramente le persone hanno paura dell’ignoto; più frequente è che siano aspetti di noi stessi che non vogliamo accettare (o che pensiamo di avere “superato”) a farci paura. Ognuno di noi ha provato un senso di fastidio – quando non si è trattato di un vero e proprio choc – la prima volta che ha ascoltato la propria voce al registratore. La dissociazione da noi stessi si può riscontrare nello sviluppo di ogni individuo “normale”. In un certo senso, si potrebbe dire che è la stessa società moderna a esigere la dissociazione. Il chirurgo, ad esempio, quando entra nella sala operatoria, non è il papà di tre figli o un appassionato dei Nirvana; non è nemmeno cristiano, buddhista o musulmano. È solo un chirurgo. Su questa dissociazione si è basata spesso anche la difesa dei criminali di guerra: “eseguivo gli ordini”, “ho solo premuto un pulsante”, “guidavo semplicemente il treno”. Cosa c’entra tutto questo con l’arte? Osservando Guernica un ufficiale tedesco chiese a Picasso se aveva dipinto lui quell’orrore incomprensibile; il pittore rispose con grande tranquillità: «non l’ho dipinto io, ma voi». Ogni razzista convinto è disposto a dichiarare che detesta gli stranieri per il loro aspetto, le loro usanze, i cattivi odori, ecc. Difficilmente confesserà che li odia perché si sente osservato; che quello che gli fa veramente paura non sono le usanze dell’altro, ma il fatto che possa mettere a fuoco e fotografare le sue; che queste possano risultare strane e ridicole. Ma esattamente come il migrante anche l’artista si aggira fra di noi con gli occhi ben aperti. Le verità che si scoprono con questa tecnica non sono sempre – su ciò bisognerebbe rassicurare i razzisti – diffamanti. Io non ho imparato che cos’è la guerra e cosa significa fare un viaggio in cui la sete non ti abbandona mai. Ma grazie alle immagini realizzate da Ahmed e Lamin so che si può indietreggiare nell’ombra fino a scomparire; che si può contemplare l’immagine di un albero frondoso fino a che, un bel giorno, non intuiamo una figura che si dondola sui suoi rami.

Vi chiederete se questo basta a rispondere alla domanda che mi sono posta durante il primo incontro con i ragazzi oramai un anno fa: se il nostro lavoro in questa emergenza avesse un senso. L’accoglienza è un processo difficile. È impossibile nutrire illusioni sul fatto che l’arte sia la priorità per una persona che ha intrapreso un viaggio difficilissimo al rischio della vita. Ma non bisogna neanche commettere l’errore opposto, ovvero di considerare tutto ciò che non rientra nell’ambito dell’assistenza materiale come accessorio, inutile. «Prima il mangiare, poi la morale» diceva Brecht. Sicuro. Ma appena le persone sono state sfamate e vestite bisogna fornire loro anche gli strumenti per essere trattate interamente come esseri umani. E qui non esistono più differenze fra superfluo e necessario. Dobbiamo dare all’Altro la possibilità di parlare e anche, sì, quella di osservarci. Anche se non è necessario. Anche se ci fa paura. Credo che se riusciremo ad andare oltre alle definizioni precostituite di chi siamo noi e di chi sono loro, se smetteremo di fuggire da una realtà precostituita e a guardarla per quello che è, forse solo allora potremmo iniziare a cambiarla.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

3 pensiero su “Tumarankè, il film girato dai migranti con lo smartphone”
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