Nour, luce. È il nome del piano delle forze dell’ordine della Repubblica Islamica nelle strade dell’Iran per far rispettare i principi di “hijab e decenza” alle donne. Dal 13 aprile. La polizia morale e la coercizione per l’obbligo del velo non sono una novità e non risalgono alla morte di Mahsa (Jina) Amini
A pochi giorni dal 25 aprile, ho chiesto all’attivista italoiraniana e traduttrice Leyla Mandrelli di parlarci del progetto Nour, adottato recentemente dalla polizia morale per trascinare le donne nelle camionette e arrestarle. Schiacciati dal pensiero bipolare su Palestina e Israele, ci dimenticheremo ancora una volta di loro: le donne iraniane che attraverso la disobbedienza civile stanno lottando per la democrazia in Medio Oriente e ricordando a tutti il prezzo della libertà.
Scrive Leyla Mandrelli
La strada delle donne iraniane per conquistare il diritto di esistere e di essere sé stesse, che non sono la stessa cosa, parte da lontano ma soffermiamoci solo dopo la Rivoluzione islamica del 1979. Per anni si sono sdoppiate, frantumate, hanno accettato pesanti compromessi. Dal velo più austero e dai colori scuri nelle scuole, nelle università e negli uffici pubblici a quello più soft e colorato, come conquista – in una sorta di auto-tranello mentale inconsapevole ma non senza conseguenze – raccontandosi che alla fine il velo è un fatto scomodo, sì, ma non fondamentale perché tanto le vere libertà e i veri diritti sono altro. Per anni, pur avanzando sempre di più verso quell’essere sé stesse, non erano mai arrivate a dire NO! insieme e definitivamente, a quel velo imposto, che hanno compreso essere il fondamento della tirannia da dover combattere, quindi, con coraggio, determinazione e perseveranza. È accaduto dopo il 16 settembre del 2022 e l’inizio della rivoluzione di Donna, Vita, Libertà. Lì hanno deciso che non potevano più fare a meno di essere sé stesse. Che era come l’aria. Che era per non impazzire. Solo sé stesse. Sempre. Dentro e fuori casa. Negli spazi privati e in quelli pubblici. Nello specchio in cui si guardavano e nel riflesso della loro mente. Nella loro coscienza. Nella loro vita tutta. Non volevano più vivere in esilio da sé stesse. Volevano che il dentro e il fuori coincidessero. Quel velo-vessillo del regime dittatoriale religioso, quel vessillo (nell’etimo latino, diminutivo di velo), forma e sostanza dell’apartheid di genere, nelle loro vite non ci sarebbe più stato. Per questo non sono state più pietre pazienti ma pietre rotolanti. Inarrestabili. Perché se hai detto NO! una volta, sarà NO! fino alla fine e quel velo te lo sarai tolta per sempre non solo da sopra la testa ma anche da dentro la testa, senza ritorno.
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Come ha fatto Aida Shakarami, 24enne arrestata qualche giorno fa e ora in carcere, che nonostante abbia perso la sorella Nika di 16 anni, uccisa barbaramente nel settembre 2022 per la libertà, ha continuato a dire NO! Oggi la presenza massiccia della polizia morale è da considerarsi una guerra. Feroce. Una guerra contro le iraniane e l’esercizio del loro diritto di cittadinanza ovunque senza doversi più “mascherare” e autocensurare. Come detto dalla Premio Nobel per la pace Narges Mohammadi nel messaggio vocale del 21 aprile filtrato fuori dal carcere di Evin dove è rinchiusa: “Come in ogni guerra, o saranno le donne iraniane a morire uccise nella lotta quotidiana per la libertà oppure sopravviveranno e vinceranno contro il regime”. Questo il regime lo sa e vede in loro il nemico più pericoloso e insidioso da annientare. Una rivoluzione femminile, non femminista, uno sconvolgimento di costumi che potrà trainare tutta la società verso la libertà, la giustizia, i diritti umani e la democrazia. Ormai, oggi e d’ora in avanti, per le donne iraniane resistere e vincere sono e saranno sinonimo di essere sé stesse. Condannate a vincere. A essere luce vera contro il buio dell’oppressione
A pochi giorni del 25 aprile, voglio ricordare anche il sacrificio di tante donne palestinesi, simbolicamente ritratte da una immagine potente che ha vinto il World Press Photo: si intitola “Una donna palestinese abbraccia il corpo del nipote” ma la fotografia del palestinese Mohammed Salem è stata soprannominata La Pietà di Gaza. Ritrae Inas Abu Maamar: una donna di 36 anni che culla il corpo della nipote Saly di cinque anni che è stata uccisa, insieme alla madre e alla sorella, quando un missile israeliano ha colpito la loro casa a Khan Younis.
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Voglio anche dedicare il 25 aprile alle donne israeliane che ogni giorno scendono in piazza a Tel Aviv per chiedere la liberazione degli ostaggi e protestare contro il governo guidato da Netanyahu. E alle donne sia ucraine sia russe che lottano contro la guerra di Putin attraverso la disobbedienza civile e l’arte. Al netto delle polemiche che volutamente ignoro, saranno loro a ricordarci il valore della giornata della liberazione dal nazifascismo.