I migranti non sono più persone. Sono un problema, un esperimento sociologico talvolta, oggetto di leggi bizantine più spesso. Questa disumanizzazione che caratterizza l’Occidente, l’Europa che si volta dall’altra parte e l’Italia che non li vorrebbe proprio, è la negazione di un principio: quello dell’accoglienza. Visto da questa parte del Mediterraneo, non è quasi più importante il motivo che ha fatto partire dal loro Paese migranti e richiedenti asilo, quanto il che ce ne facciamo di loro ora che sono qui. Su questi temi si interroga Mohamed Mbougar Sarr, premio Goncourt 2021, autore di Il silenzio del coro, pubblicato dalle Edizioni e/o. Il suo è anche un reportage dopo diverse visite nei centri di accoglienza che ospitano i migranti in arrivo in Italia. Lo fa attraverso una prospettiva che mette a confronto chi accoglie e chi è accolto. Settantadue uomini arrivano in un paese della campagna siciliana. Sono definiti “immigrati”, talvolta “rifugiati” o più spesso “migranti”. Ad Altino, quelli che l’associazione Santa Marta prende in carico si chiamano semplicemente ragazzi. La loro presenza però sconvolge la quotidianità della cittadina. In attesa che venga deciso il loro destino i ragazzi si imbattono in ogni sorta di personaggi: un parroco atipico che riscrive le loro storie, una donna impegnata a offrire loro accoglienza, un uomo determinato a rifiutargliela, un poeta scorbutico che non scrive più. Ogni personaggio di quest’affresco, chiunque esso sia, è costretto a riflettere su cosa significhi l’incontro con persone di cui in fondo sa ben poco. I loro punti di vista sono altrettanti sguardi su una situazione meno conosciuta di quello che sembra, altrettante voci disarmoniche e mischiate, nel bene e nel male, fino alla fine, fino al silenzio imposto dalla voce ultima del coro. Fabio PolettiMohamed Mbougar SarrIl silenzio del coro
traduzione dal francese di 
Alberto Bracci Testasecca2023 Edizioni e/opagine 352 euro 19

Per gentile concessione dell’autore Mohamed Mbougar Sarr e dell’editore e/o pubblichiamo un estratto dal libro Il silenzio del coro.”Perché sei partito dal tuo paese?”. Per un rifugiato è una domanda difficile. E dunque non gli viene risparmiata mai. Tutti gliela pongono. La sente quando si presenta davanti alla commissione, glielo chiedono le persone commosse dalla sua presenza e glielo chiedono anche quelle che gli sono ostili: tre interlocutori diversi che, per quanto dissimili fra loro, si ritrovano nel fargli la stessa domanda.Prendiamo i primi due tipi di interlocutori, il membro di una commissione e la persona benevola commossa dal rifugiato. Di fronte a loro il migrante ha a disposizione due categorie di risposte, quelle che cominciano con “perché” o “a causa di” e quelle che cominciano con “per” o “affinché”. Davanti alla commissione territoriale o alla persona bendisposta assetata d’emozione il migrante ha la possibilità di mettere l’accento sulla causa o sullo scopo della sua partenza, sul motivo o sul movente, sulla ragione o sull’obiettivo. A seconda dell’opzione che sceglie non sarà lo stesso tipo di immigrato. I “perché” o “a causa di” hanno più probabilità di ottenere i documenti o commuovere. Agli occhi della commissione e della gente sensibile, questa risposta indica l’assoluta necessità di partire per colpa della guerra, della fame, di persecuzioni, discriminazioni, catastrofi naturali, disastri ecologici eccetera. Sono buoni migranti, erano minacciati da morte certa. Gli altri, quelli del “per” o “affinché”, sono più sospetti. Anche la loro risposta può essere convincente o commovente, ma con più difficoltà, perché dal punto di vista dell’interlocutore legala partenza a una ragione non assolutamente necessaria, addirittura superflua, come guadagnare di più, aiutare la propria famiglia, trovare lavoro, avere prospettive di futuro e di una vita migliore. Sono cattivi migranti, minacciati soltanto da una morte incerta. La distinzione tra buoni e cattivi migranti si fa ormai sia considerando la loro utilità e adesione al paese d’accoglienza, sia valutando il grado di esposizione alla morte nel loro paese d’origine. Quindi un buon migrante non è più un coraggioso immigrato che ha lasciato il suo paese per continuare gli studi o far valere le proprie competenze in una terra di cui sposa più o meno i valori e il modo di vita, no: per i paesi che si domandano se tutta la miseria del mondo possa riversarsi o meno a casa loro, il buon migrante sta diventando il migrante quasi morto. Certo, quasi. Deve comunque restargli un po’ di fiato per raccontare le circostanze in cui la morte, in un modo o nell’altro, è stata sul punto di portarselo via. La qualifica di migrante è un diploma che va meritato, con varie menzioni di cui la più prestigiosa è: “è stato davvero sul punto di morire!”. Ci sono anche i fallimenti. Oggi il fallimento di un rifugiato non consiste più soltanto nel non raggiungere una terra che possa accoglierlo, ma anche nell’arrivarci senza aver rischiato di morire. Se non riesce a dimostrare che aveva la morte alle costole non vale niente, non viene accolto.Con il tempo e l’aiuto delle associazioni umanitarie molti ragazzi hanno capito che era sempre meglio cominciare il racconto con un “perché”. Anche se motivati da ragioni strettamente economiche, sono in tanti a inventare o esagerare ragioni di assoluta necessità. Insomma, c’è chi aggiusta la verità. È una cosa banale da dire, ma la domanda “perché sei andato via dal tuo paese?” è di una tale violenza che nessuno dovrebbe stupirsi se quelli che se la sentono rivolgere rispondono con una bugia. Ne hanno il diritto. Ci sono addirittura obbligati, perché per ottenere i documenti la cosa più importante non è la vera storia del rifugiato, ma la sua tragica verosimiglianza.E veniamo al terzo tipo di interlocutori, quelli ostili alla presenza dell’immigrato, quelli che se ne fregano di sapere se sia partito “perché” o “affinché”. La cosa che li disturba non è la ragione della partenza, ma quella dell’arrivo. La loro attenzione si sofferma sul fatto che il migrante sia lì. Sbagliano la domanda. Invece di chiedergli “perché sei partito?” dovrebbero chiedergli “perché sei qui?”, che è una domanda leggermente diversa. Eppure, con tutto il loro disprezzo, gli ostili sono gli unici a puntare il dito su quella che è forse la verità della situazione. Sì, benché spesso lo facciano per ragioni ben tristi, sono gli unici a considerare il migrante come un individuo che c’è, che è arrivato, che ha un presente e vuole costruire un futuro. Laddove gli altri due interlocutori cercano di definire l’immigrato solo attraverso il suo passato, laddove appare loro umano solo perché una causa drammatica l’ha obbligato a partire, l’anti-migrante, malgrado la sua fobia, vede l’immigrato come un uomo presente, che è lì con lui (anche se è proprio questa l’idea che non sopporta).In questo senso, paradossalmente, è l’uomo ostile a vedere le cose nel modo giusto. Senza rendersene conto, tramite un ragionamento funesto, arriva a fare un’altra domanda più difficile, ma forse più pertinente per il migrante: “Ora che sei qui cosa vuoi da noi?”. È una domanda più sensata. Non riduce il rifugiato a un dramma che cammina, ma indaga i suoi desideri, i suoi sogni, la sua vita interiore, le sue aspirazioni profonde. Ma a chi interessano queste cose? Chi ha voglia di conoscere la storia profonda e complessa di un animo umano? Chi ha voglia di raccontarla? Chi è sicuro di poterla raccontare? E chi di poterla sentire? In tutta questa storia alla fine, nonostante sia difficile, il “perché sei partito?” è forse la domanda che fa contenti tutti.Titolo originale Silence du chœur© Présence Africaine Editions, 2017© 2023 by Edizioni e/o