Accadeva sette anni fa: il 3 ottobre 2013 le acque ci restituirono, impietose, i corpi di 368 vittime di una delle peggiori tragedie del mare avvenute al largo di Lampedusa, che da allora ha istituito in quel giorno la sua Giornata nazionale in memoria delle vittime dell’immigrazione. «Quest’anno, più che mai, sarà un trionfo dell’ipocrisia, tra grandi proclami e post social. Qualcosa certamente in sette anni è cambiato, ma in peggio» premette Gianfranco Schiavone di Asgi, l’Associazione Studi Giuridici sull’Immigrazione. «Ci siamo abituati talmente tanto alle morti in mare, da permettere ai nostri governi non solo di smettere di attuare il soccorso in mare, ma anche da attaccare in modo violento quelle associazioni di persone comuni che, scandalizzate, hanno deciso di unire le loro piccole forze per fare la loro parte. Accusare le ong di soccorso di contribuire a far morire le persone è come accusare la Croce Rossa perché le sue ambulanze recuperano i feriti sulle strade».

Il tragico ricordo di Lampedusa avviene all’ombra di un’altra grande macchia nella coscienza civile europea, l drammatico incendio che ha distrutto il campo di Moria, sull’isola greca di Lesbo. Soprattutto, la tragedia di Lampedusa è ricordata a pochi giorni dall’annuncio di nuovo patto su asilo e migrazione presentato dalla presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen. Rinviato causa pandemia e atteso ormai da mesi, sancisce la mancanza europea di prevenire tragedie come quelle di Lampedusa, spiega Schiavone: lo capirebbe anche un bambino.

La prendo in parola. Immagini di raccontare di questo famigerato patto sull’immigrazione ad un bambino di dieci anni. Come spiegherebbe, prima di tutto, cos’è un patto?

«Il patto è un accordo tra gli Stati, i quali si accordano su come gestire l’immigrazione e l’asilo. Non si tratta di una legge, ma di principi e decisioni che saranno poi tradotte in leggi che, nel linguaggio dell’Unione Europea, si chiamano regolamenti e direttive».

Perché tutto questo parlare del Regolamento di Dublino?

«Tutti citano Dublino perché tra le normative che dovranno cambiare ce n’è una principale, una sorta di chiave di volta senza la quale l’ordinamento non sta in piedi: è il Regolamento di Dublino, che stabilisce una serie di aspetti fondamentali. In particolare, chi tra gli Stati europei debba esaminare la domanda di asilo presentata da un cittadino straniero entrato nell’Unione Europea. Ecco, Dublino stabilisce questi criteri: volendolo spiegare ad un bambino, parlerei delle regole del gioco».

E perché Dublino “va superato”? Cosa non funziona?

«Il Regolamento di Dublino è fondato su molte regole, ma quelle importanti sono due: la prima dice che l’esame della richiesta di asilo tocca allo Stato che ha permesso a quella persona di arrivare regolarmente in Europa. Cioè, se arrivo in Europa con un visto francese, anche se il mio aereo atterra in Italia, dovrò presentare la mia richiesta di asilo in Francia, che è il Paese che mi ha permesso di entrare. Ma se nessuno mi ha preventivamente dato il permesso di entrare, magari perché sono fuggito da una guerra, Dublino stabilisce che la richiesta di asilo debba essere esaminata dal primo Paese europeo nel quale arrivo».

Anche un bambino capirebbe che stando alla geografia le richieste di asilo tocchino ai Paesi che hanno confini esterni all’Unione Europea.

«Sì e no. Formalmente, una nazione che non ha un confine esterno non verrebbe interessata dal fenomeno, ma la realtà dei fatti è un’altra. Le persone arrivano in Grecia, in Italia, a Malta e in alcuni Paesi dell’Est e se ne vanno, cercando di non farsi vedere e di non essere obbligati a fare richiesta di asilo lì, spostandosi altrove, dove sanno esserci condizioni di vita migliori. Per questa ragione, l’Italia invece di avere numeri altissimi di richieste di asilo, è appena nella media europea».

Qual è quindi il problema?

Il problema è che questo sistema ha generato il caos, gli Stati cercano di spostare e passarsi le persone come se fossero pacchi postali e non persone che hanno vissuto dei drammi

Non so se il bambino cui ci stiamo riferendo abbia letto giornali, ma la presidente della Commissione Ursula von der Leyen ha dichiarato che il nuovo patto sarà “improntato su solidarietà e responsabilità”.

«È una bugia. La proposta della Commissione dice che le persone devono rimanere provvisoriamente nel Paese dove sono arrivate, dove viene esaminata la loro domanda di asilo, per vedere se è valida, destinata con probabilità ad essere respinta oppure no. L’idea è di esaminare molto velocemente il maggior numero possibile delle domande che hanno meno probabilità di essere accettate, facendo una sorta di filtro pre-esame: se questo esame andrà bene, le persone potranno essere distribuite in altre nazioni, mentre chi non ha passato questo “test d’ingresso” non sarà spostato altrove, ma il Paese di arrivo dovrà occuparsi del suo ritorno nel Paese di origine anche con l’aiuto economico di altri Stati».

Eccola, la famosa solidarietà: è la possibilità che si paghi un altro Paese perché faccia il lavoro sporco al posto tuo. Ad esempio all’Ungheria (che fa parte di un gruppo di Paesi, detti di Visegrad, che si oppone a qualunque ridistribuzione dei rifugiati) la Commissione dà una scappatoia: può continuare a non accogliere nessuno, basta che paghi ad esempio l’Italia per rimpatriare le persone che non hanno passato l’esame. Allo stesso modo, se non vuoi neppure accogliere le persone che “hanno passato il test”, paghi perché non siano inviate nel tuo Stato

In fondo si dice sempre che per convincere qualcuno non c’è niente di meglio che mettere mano al suo portafogli…

«Non è così. A livello pratico, questo è un sistema che consente a molti Paesi di tirarla per le lunghe, anche sul piano economico. E io credo che un bambino, ancor meglio di noi adulti, capirà che questo è un modo ben strano di concepire la solidarietà, ovvero lo stare insieme. È come giocare in una squadra nella quale c’è qualcuno che paga qualcun altro per giocare al posto suo».

Per l’Italia, alla fin fine, cosa cambia?

«La scappatoia rimarrà, le persone continueranno ad arrivare in Italia e cercare di spostarsi altrove senza farsi intercettare. Ma in prospettiva aumenteranno anche le persone che resteranno in Italia per lungo tempo. Immaginiamo la situazione: secondo il patto, quello che abbiamo chiamato “test d’ingresso” dovrebbe essere esaminato nel giro di un paio di settimane. Qualsiasi studente sa bene che al professore serve del tempo per correggere tutti i compiti in classe. Quindi o queste domande di asilo saranno esaminate malissimo, aprendo la strada ad una valanga di ricorsi, oppure i tempi saranno necessariamente più lunghi. Nel frattempo cosa succederà alle persone che attendono?».

Nel patto non è menzionato. Lei che idea si è fatto?  

Non si investirà più sulla persona. Invece che sull’accoglienza diffusa, si punterà su tanti campi profughi. Esattamente come in Grecia, dove in teoria si trovavano campi temporanei – nella pratica sono nati insediamenti dove la gente è rimasta bloccata per anni. E abbiamo visto benissimo come è finita, a Lesbo e a Moria. Alla fine tutto questo gran parlare su questo patto, si riduce a ben poco. E come ci siamo detti, lo capirebbe anche un bambino

Ovvero? Come riassumerebbe i principi di questo patto?

«Dice: mettiamoci d’accordo su come facciamo a non fare arrivare in Europa le persone che scappano da una guerra, da drammi o da catastrofi. E solo se, purtroppo, queste riescono ad arrivare, allora ce le dividiamo. E come facciamo a non farle arrivare in Europa? Paghiamo tutti insieme dei Paesi terzi, al di fuori dell’Unione europea, affinché li blocchino. Poco importa che questo significhi fare accordi con Paesi violenti, in guerra, dove queste persone rischieranno la loro vita. È un po’ come dire: non posso ammazzare qualcuno perché è contrario ai miei principi. Ma se riesco a pagare qualcuno perché lo faccia al posto mio, non è un problema. D’altro canto, lo stiamo già facendo».

La commissaria agli Interni Ylva Johansson ha spiegato che questo patto punta a rimpatriare velocemente le persone perché “quando una persona vive da anni in un Paese, ha relazioni sociali, si innamora, è molto più difficile sia per quella persona che per le autorità eseguire un rimpatrio nel Paese di origine”. Può spiegare al nostro ipotetico piccolo lettore cosa c’entra questa frase con la strage di Lampedusa?

«Noi viviamo in una società e le leggi che ci governano dovrebbero essere indirizzate a tutelare i più deboli, a redistribuire le risorse tra tutti noi. Queste parole esprimono una concezione violenta della società, nella quale alcuni hanno tutto e altri non hanno nulla. Integrarsi, trovare un lavoro, persino innamorarsi può diventare una colpa. Una situazione di questo tipo non fa altro che dividere la società.

Si tratta di una forma di razzismo molto pericolosa. Si crea un nemico interno, che vive in mezzo a noi, che bisogna espellere nonostante non abbia fatto null’altro che cercare di cambiare la sua vita, e magari c’è anche riuscito. Innamorarsi. Che razza di colpa sarebbe?

Foto: Enrica Tancioni / Unsplah