Zahra Ahmadi è alta, ha capelli e occhi scuri, e sembra forte come una quercia e chissà se lo è perché appartiene all’etnia hazara di fede sciita perseguitata da secoli in Afghanistan. Parla in persiano ma si intuisce che deve aver sofferto e combattuto troppo a lungo per divagare con le parole. Più avvezza a sottrarre che ad aggiungere. A Venezia, dove l’ho incontrata, ha fatto un resoconto telegrafico della sua tragica traiettoria. «Ho vissuto cose brutte, i talebani sono degli assassini e le donne rappresentano l’unica speranza», ha detto. «Eravamo inserite nella società, eravamo forti, autonome. Abbiamo perso tutto in una notte. Non ho più un luogo dove stare in Afghanistan. Forse ho sbagliato a lasciare il Paese, ma non avevo alternativa. Ero una commerciante, ho perso il diritto di continuare ad esserlo ed ero minacciata. Questa è la mia sorte e non solo la mia». È stata salvata insieme ad altre 23 attiviste dall’europarlamentare del Pd Alessandra Moretti. Rahel Saya, giovane giornalista di soli 21 anni, ora rifugiata a Genova. invece è stata aiutata da quella che chiama “la mia sorella italiana”, Elisa Serafini, giornalista e attivista di Students for Liberty. Rahel era così impaurita che si è addirittura tagliata via le unghie colorate, per il timore di suscitare una reazione violenta da parte dei talebani. Anche se in passato aveva già subito molte pressioni psicologiche e minacce alla sua incolumità, non aveva mai pensato davvero di lasciare il suo Paese. «Quando sono arrivata in Italia ero così felice che ho pianto di gioia», mi ha scritto via WhatsApp, «ma in Afghanistan ho seppellito i miei sogni». A Kabul collaborava con Voice of America e Andisha Tv. Girava le province per raccontare la generazione di giovanissime che stavano emergendo, nate e cresciute con maggiori diritti e un solo desiderio, quello di essere libere: donne giudice, avvocati, medici.

Quando è arrivata in Italia e ha preso il premio giornalistico Biagio Agnes, si è presentata sul palco della Rai con un sorriso luminoso sul volto. Solare e irruente, voleva raccontare le tante, troppe cose che dovremmo capire di questa tragedia più grande di noi che ha travolto le nostre vacanze ferragostane con la potenza devastante di un tornado. Ma, infilata in un sincopato palinsesto televisivo, è riuscita solo a dire che non aveva mai confidato alla sua famiglia di aver ricevuto minacce, ha ringraziato la sorella italiana che l’ha aiutata, Elisa Serafini, ha ringraziato per il premio e se ne è andata radiosa al braccio del traduttore, il profugo e scrittore Alidad Shiri

 

 

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Samia Hamasi invece l’ho incontrata per caso in un centro di accoglienza. Lei è stata centrocampo e poi allenatrice della squadra nazionale femminile di calcio. Piccola, minuta, negli occhi un guizzo di impazienza per la nuova vita che non è ancora cominciata, ha 24 anni e il cuore sempre oltre l’ostacolo. In un pomeriggio di sole autunnale mi ha donato la sua storia nel giardino della casa dove si trova ora. Due giorni dopo l’arrivo dei talebani a Kabul, la federazione di calcio l’ha chiamata per dirle di bruciare tutto: magliette, medaglie, certificati. Poi grazie all’associazione Pangea è riuscita a scappare. Durante il nostro incontro Samia ha sempre sorriso e riso, ma sul volto alternava espressioni di angoscioso smarrimento a un tenace ottimismo. Mi ha mostrato le foto della sua squadra, delle sue compagne che ora sono in Australia e il video della sede della federazione di calcio, devastata da un attentato nel 2019.

A Kabul studiavo Scienze politiche all’università. Ero vicino alla laurea e per colpa dei talebani ho buttato via anche quattro anni di studio. Li odio. Spero che spariscano dalla faccia della terra

Provo un senso di immensa gratitudine per Samia Hamasi perché ha una forza interiore talmente grande che riesco solo a sfiorarla. Ora è andata in cerca di un luogo che possa chiamare casa e io la chiamo spesso per sapere come sta. Insomma non la mollo perché è da sola. Le nostre conversazioni sono un po’ surreali perché non parla bene inglese, ma ci capiamo. Vorrei fare di più, vorrei fare qualsiasi cosa perché possa entrare di nuovo in un campo da calcio ma per ora lei, che è stata aiutata dall’associazione Pangea a venire in Italia, è considerata solo una profuga. Finita nella tabella “migrante”, dovrà avere molta fortuna per riuscire ad uscire dal limbo in cui si trova.

Quello che vi sto raccontando è la sintesi della trama del nuovo episodio del podcast Radici prodotto da Storielibere.fm che si intitola Afghanistan-donne che salvano donne, ispirato in parte allo storytelling di NRW e un po’ alle variazioni sul tema dell’immigrazione su cui faccio continue ricerche perché non riesco a resistere alla tentazione di scavare nel cuore delle persone. Uno scrittore ha detto che finché abbiamo una storia da raccontare, restiamo vivi. E deve essere un po’ così, perché ogni volta che parlo o scrivo delle donne salvate dalla furia misogina dei talebani e sopratutto di Samia Hamasi, che è rimasta in mezzo al guado, il mio cuore vibra

Diversity leadership nella sanità

Dopo il nostro primo workshop dedicato agli artisti di seconda generazione del progetto sulla diversity leadership in cinque città  (qui trovate tutto il progetto, diviso per città, articoli, video e info su come iscrivervi), ora ci stiamo preparando per il secondo appuntamento del 19 novembre all’università di Parma. In Italia ci sono 22mila medici, 38mila infermieri, 5mila odontoiatri, 5mila fisioterapisti, 5mila farmacisti, 1000 psicologi e 1500 fra podologi, tecnici di radiologia, biologi, chimici e fisici. Questi sono i numeri dei professionisti sanitari di origini straniere. E fra gli oltre 350 medici morti durante la pandemia, almeno 18 sono stranieri. A Parma proveremo a raccogliere la sfida per riuscire a coniugare diversità e uguaglianza anche fra i medici con background migratorio.

Pochi lo sanno, ma nel nostro Paese ci sono quasi 90mila operatori sanitari di origini straniere. Sono uomini e donne che si sono formati nelle nostre Università e che in molti casi non possono lavorare nel sistema sanitario nazionale e hanno difficoltà ad iscriversi nelle scuole di specializzazione perché non hanno la cittadinanza o, nel caso abbiano studiato all’estero, non riescono ad avere il riconoscimento dei propri titoli di studi

Nella caotica fase della pandemia in cui si sono incrociate paura e dolore, rimozione e negazionismo, è finalmente emerso ciò che NRW ha raccontato e documentato ancora prima che il Coronavirus sconvolgesse il mondo intero.

Il 19 novembre parleremo di cura e cittadinanza con tanti giovani medici di origini straniere, le difficoltà di fare carriera nel sistema sanitario nazionale, le opportunità che invece sono state colte. E la necessità di ripartire dopo la pandemia, valorizzando e includendo tanti professionisti con background migratorio. Ad animare la discussione della tavola rotonda della mattina ci sarà Bertrand Tchana, primario della Cardiologia pediatrica di Parma con origini camerunensi. Un modello per tanti studenti stranieri che arrivano a studiare a Parma

Nel pomeriggio si terrà un workshop per permettere ai relatori e alle relatrici di confrontarsi con gli studenti che parteciperanno e sarà condotto da Anass Hanafi, presidente di NILI, il network per l’inclusione dei leader in Italia e da Natalia Demagistre, psicologa italoargentina che lavora nei centri di accoglienza per offrire supporto a chi deve superare il trauma della migrazione. Per iscrivervi, basta un clic su questo link https://bit.ly/3obii2k. Venite, partecipate, portate il vostro entusiasmo e non dimenticatevi il green pass.

Ps. Se vi state chiedendo come riusciamo a fare tante cose senza stramazzare al suolo con un magazine autofinanziato e una piccola associazione, è giunta l’ora di darci una mano ed entrare nella nostra comunità.