Oggi è la Giornata Mondiale dei Migranti. Una ricorrenza che quasi si perde nella moltitudine di anniversari sanciti dall’Onu e da altri organismi internazionali. Per noi di NuoveRadici.world oggi però non è un giorno come tanti. Migrare vuol dire pure divellere le proprie radici. Atto faticoso e doloroso come racconta Mouktar nell’estratto che pubblichiamo dal libro di Alessandro Tedesco, Il viaggio di Mouktar Storie di migranti raccolte da un insegnante di frontiera, pubblicato da Meltemi. Alessandro Tedesco è un giornalista, ha scritto di musica e di sport, poi dal 2016 è diventato insegnante di italiano per stranieri nei centri di accoglienza. Da questa esperienza ha tratto questo libro che non è solo un memoire di un educatore, alle prese con le difficoltà dell’insegnamento e la burocrazia paludosa in cui rischiano di affondare le migliori intenzioni. Il suo è racconto vivo, sedici storie di altrettanti migranti alle prese con un’odissea che caratterizza questo inizio di Terzo Millennio. Ognuno dei migranti che ha incontrato e raccontato gli ha donato una storia che parte da lontano, dall’Africa dve si continua a scappare per non morire. Ognuno di loro è come Mouktar che ha lasciato il suo Paese quando aveva 16 anni e due anni dopo si trova in Italia, senza radici, senza identità, senza documenti. Un signor Nessuno, come si definisce lui stesso tracimando nelle pagine di questo libro. Di signori Nessuno così, si è riempita l’Italia negli ultimi quarant’anni. Molti di loro sono diventati a loro volta insegnanti, chirurghi, imprenditori, artisti, sportivi di eccellenza, professionisti o semplici lavoratori che con il loro vigore e il loro sudore sono parte fondamentale e necessaria dell’architrave che sorregge il nostro Paese. Ricordarsi dei tanti Mouktar che erano Nessuno, non può più essere l’esercizio distratto di un giorno che vuole essere un anniversario, da dimenticare subito dopo, come tutte le ricorrenze. Mouktar e i suoi fratelli sono tra noi ogni giorno. Nostri fratelli. Fabio PolettiAlessandro TedescoIl viaggio di MouktarStorie di migranti raccolte da un insegnante di frontiera2021 Meltemipagine 132 euro 12

 

Per gentile concessione dell’autore Alessandro Tedesco e dell’editore Meltemi pubblichiamo un estratto dal libro Il viaggio di Mouktar.La storia di Mouktar è il primo racconto sul tema dell’immigrazione che ho scritto e pubblicato, dopo più di un anno di insegnamento a stretto contatto con i miei allievi. In quel periodo insegnavo in tre centri: SPRAR per maggiorenni di Agrigento e di Realmonte e CAS di Siculiana. Lavoravo intensamente, tutta la settimana piena.Ero immerso, completamente in apnea, in quel mare di onde sospese.Ho letto quel racconto ai ragazzi, nell’ufficio di Realmonte. C’erano Bah, Lamin, Madi, Ibrahima e Ismail, tutti intorno a me, che seguivano il testo sul display del computer e che, in silenzio, ascoltavano. Parlavo di loro, della loro casa, della loro vita. Alla fine erano emozionati. Non avevano capito granché di tutto il testo, ma alcune parole, quelle a loro familiari, avevano fatto breccia. Era la storia di uno di loro, la storia di tutti.IO, MOUKTAR KANTE,IN ATTESA DI DOCUMENTI. SIGNOR NESSUNOAspetto i documenti. Due anni, ancora nulla. Ogni giorno, da due anni, aspetto. Mi sveglio tardi la mattina solo per rimandare l’attesa, sto a contemplare il nulla, perché nulla è la mia condizione. Nel mio paese ero Mouktar Kante. Qui sono un nome qualsiasi, nato in un giorno qualsiasi, di un anno a caso scelto dagli operatori che mi hanno assistito durante lo sbarco.Boum Kunda, sulla riva sinistra del fiume Gambia, nella regione di Basse. Un crocevia di persone, di etnie, di lingue: fula, wolof, mandinga, serer, francese, inglese, arabo. Treni, autobus, camion, barche, gente in bici, a piedi, che trasporta la sua mercanzia per portarla ai depositi regionali, al mercato. Sono cresciuto in un villaggio di capanne sulla sponda del fiume. Due, forse trecento persone che non conoscono né notte né giorno ma solo lo scorrere incessante della vita. Ho diciotto anni, o almeno credo. Mi ricordo che quando sono partito ne avevo sedici; ora, qui, in Italia, dovrei essere maggiorenne.Non ho fatto la scuola, non ci sono andato, sono “analfabeta”; hanno scritto così, appena sono arrivato a Lampedusa. Però a due anni ogni mattina mio padre mi svegliava alle cinque e mi portava in una casa, grande, con le mura di cemento, tra il fango e la polvere e vene che ricamavano il selciato, in cui si trascinava una poltiglia che nutriva gli orti del villaggio. Era la daara, la scuola coranica: eravamo in tanti, stavo lì e il karamoko ci faceva ripetere le āyāt, per ore e ore, finché non mi veniva a riprendere mia mamma e con lei andavamo al fiume, dove lavava i panni per le altre famiglie, e lì sul fiume giocavo, torchiavo e calpestavo le robe nel limo. Ma altri giorni non leggevamo il Corano e col karamoko, insieme agli altri talibè, andavamo nella città di Dampha Kunda, nel grande mercato; un piccolo esercito, un branco sciolto. La grande città era una favola, piena di colori, di gente e rumori e cose e animali, e noi lì a girare, correre con un barattolo in mano, recitando: “Allāhu lā ilāha illā Huwa, al-Ḥayyu al-Qayyūmu lā taʾkhudhuhu sinatun wa lā nawm”, un soldo per mangiare… E la sera aspettavamo mio padre. Noi intorno al fuoco mangiavamo le provviste che lui era riuscito a scambiare al mercato con il latte che mungeva dalle poche mucche che avevamo, e ascoltavamo le storie. Storie di suo cugino, oppositore del governo di Yahya Jammeh, a Banjul; storie cattive, di violenza, di gente che muore, di gente che scappa.Non andavo più alla daara. La mattina presto con gli amici ci tuffavamo nel fiume, facevamo le gare di resistenza sott’acqua e a chi riusciva a portare su più pietre. Poi badavo agli animali. Mi piaceva stare con loro, erano divertenti; non come gli amici, ma mi facevano compagnia: li portavo in giro e pure al fiume, anche se non sapevano tuffarsi nell’acqua. Nel periodo di secca riuscivo anche a percorrere quaranta chilometri al giorno: mio padre mi aveva affidato le mucche, le più preziose, e io le portavo al pascolo, là dove c’era il verde. Lui restava in città: aveva iniziato a lavorare lì, costruiva case. Andava la mattina, dopo che avevamo munto quegli ossuti quadrupedi; partiva presto, con la moto, caricandosi dietro le grandi boly piene di latte. Attraversavo tanti piccoli villaggi, e nell’oasi verde, ci incontravamo in tanti, giocavamo a calcio, nel greto del fiume asciutto, le porte con le canne, le linee laterali e dell’area di rigore con le pietre bianche, il pallone una pezza bagnata fatta asciugare al sole e legata con una corda. Alla fine Lamin tirava fuori la kora a ventuno corde e come un vecchio griot ci cantava storie d’amore, storie antiche, storie di guerra e pace: le conoscevamo tutte ma restavamo sempre incantati ad ascoltare.La mia vita iniziava ad avere altri confini, altri amici. Vedevo il Senegal, vedevo i camion che venivano a fare il carico a Basse e poi tornare per rivendere la merce molto più cara nel paese confinante che ci ospita… Così anche mio padre ha iniziato a scambiare il latte col cemento e commerciare, una volta al mese, dalla fabbrica di cemento di Banjul a Tambacounda in Senegal. Accompagnavo mio padre su un camion che noleggiava. Andavamo nella capitale a caricare il cemento, in quella fabbrica con ciminiere altissime, da cui usciva un fumo denso e nero e su cui era disegnata quella spirale che spesso trovavo sulle pietre rotte al fiume, con impresse le scritte “Gacem Italcementi Group”.Stanotte ho fatto un sogno: una strada tra le macerie, sembra la periferia di Banjul. Una fila di uomini strisciano nel fango, non hanno colore, si trascinano nudi come vermi. La mia prospettiva è dall’alto, da dietro, sono schiacciato su di loro. Strisciano, avanzano l’uno con l’altro trascinandosi esanimi. L’aria è piena di polvere, rarefatta, sembra che sia appena successa l’apocalisse. Nessuno geme. Procedono in silenzio non si sa verso dove, forse verso la fine della loro condizione. L’uomo che i miei occhi seguono, l’ultimo della lunga colonna, ha i capelli lunghi, dei bei capelli, un bel corpo, perfetto, una schiena perfetta, dei glutei perfetti; se non fosse che i suoi intestini e le sue budella, eviscerati, come appendici esterne, seguono il suo strazio.L’uomo dai capelli argento si ferma. Quello davanti a lui, calvo, anch’esso con un corpo perfetto ma martoriato, si gira, lo guarda, gli afferra un pezzo di carne e lo prende a morsi, si ciba, si nutre. Squarcia le budella a morsi e vi infila la testa gridando a squarciagola.Ecco, ora sono qui, su questo letto, con le coperte fin sopra la testa e gli occhi aperti. Vedo Mariama, a Dakar, nella sua classe, studia, vuole fare la dottoressa. Io volevo sposarla, è bella, bellissima. Ma era per il mio bene, e anche, forse, per il suo. “Dove vuoi che faccia l’università? Dove vuoi far vivere in pace i tuoi figli?”Mio padre ha comprato il “viaggio”. Mi ha accompagnato all’autobus per il Mali e il Burkina Faso e il Niger e la Libia, e poi un biglietto in seconda classe, sottocoperta, per l’Italia. Avevo sedici anni, mi ricordo, e non volevo, non volevo lasciare tutto, non volevo perdere tutto: mamma e Dara, Chinelo, Lamin, Omar, la palla di pezza, il fiume, le mucche. Non volevo, quello era il mio janna10, e forse, qui, è il jahannam.Io, Mouktar Kante, in attesa di documenti. Signor Nessuno.© 2021 – Meltemi Press Srl