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Si scrive decreto immigrazione ma si legge vorrei ma non posso fare una politica coerente. Il decreto (in)sicurezza, diventato immigrazione dopo le modifiche del 5 ottobre scorso, si è trasformato in decreto fantasma. Non è ancora uscito sulla Gazzetta Ufficiale e quindi non si sa quando arriverà in Parlamento perché pare che al Colle ci siano alcune perplessità. Nell’attesa, noi lo abbiamo rinominato decreto vorrei ma non posso perché è pieno di incongruenze. Come spiega Ugo Melchionda, fondatore portavoce del Gruppo Grei250, lobby umanitaria nata per lavorare ai fianchi della politica al fine di ottenere, prima o poi, una politica migratoria più sensata. «Nel vorrei ma non posso, le navi delle organizzazioni umanitarie rischiano delle sanzioni se non rispettano le indicazioni del Centro di coordinamento per il soccorso marittimo competente. E rischiano quindi di dover consegnare i migranti alla guardia costiera libica che controlla una vasta area di ricerca e salvataggio riconosciuta dall’Imo, l’Organizzazione marittima internazionale dell’ONU», spiega a NRW.

Si scrive decreto immigrazione ma si legge vorrei ma non posso fare una politica coerente perché le nuove norme hanno creato il problema dei migranti esodati: centomila persone cui è stata negata la protezione umanitaria o internazionale dopo l’introduzione dei decreti (in)sicurezza sono stati espulsi dai centri di accoglienza ma ora non possono tornare indietro e restano nel limbo dell’irregolarità.

Si scrive decreto immigrazione ma si legge vorrei ma non posso fare una politica coerente anche perché le modifiche dei decreti voluti dal leader della Lega prevedono un trattamento differenziato fra chi arriva da Paesi insicuri (guerre, calamità, persecuzioni) e quelli considerati sicuri (migranti economici). «Se arrivano tremila tunisini che facciamo, li respingiamo tutti?» chiede Melchionda.

Si scrive decreto immigrazione ma si legge vorrei ma non posso fare una politica coerente anche nell’accoglienza diffusa perché tutti gli strumenti di integrazione, i corsi di lingua e formazione professionale, sembrerebbero riservati solo a chi ottiene la protezione internazionale e non ai richiedenti asilo nei centri di accoglienza.

Perciò io mi chiedo e dico: perché? Nel 2020 gli sbarchi hanno riguardato 26mila persone. Non siamo di fronte ad alcuna emergenza e i centri di accoglienza sono semivuoti. Inoltre nel rapporto annuale sull’economia dell’immigrazione appena presentato dalla Fondazione Moressa emerge che, sebbene dal 2011 l’Italia abbia di fatto chiuso le porte ai migranti, tasse e contributi dei lavoratori stranieri valgono 9,5 punti di PIL (147 miliardi di euro). E la minisanatoria dell’estate scorsa costituisce un gettito potenziale di 360 milioni annui di tasse e contributi.

Perciò io mi chiedo e dico: perché? Perché c’è ancora bisogno di fare dell’immigrazione una palla rovente che nessuno ha il coraggio di tenere in mano? Perché nessuno vuole affrontare lo scandalo della rotta balcanica, violenze e illegalità alle porte dell’Europa? Perché si fanno indagini giudiziarie sulla promiscuità nelle Rsa che ha creato focolai di Covid, ma nessuno si preoccupa se gli ospiti dei centri di accoglienza positivi vengono trasferiti sulle navi quarantena dove c’è la stessa promiscuità?

Mi sfugge il senso di procedere alla cieca. Il loop della nostra più che lecita paura dell’emergenza sanitaria non può servire per giocare a nascondino. Tirate fuori il decreto (in)sicurezza diventato vorrei ma non posso. Così almeno possiamo provare a dirvi come dovrebbe essere migliorato.

Tim Mossholder/Unsplash

Nel frattempo, a chi ancora non sa se chiamarli immigrati, nuovi cittadini, nuovi italiani, seconde e/o nuove generazioni, segnaliamo un po’ di articoli della nostra produzione quotidiana. Nella nuova puntata della videorubrica “Le storie di Sara”, abbiamo parlato dei casting della manager Charity Dago per rappresentare gli artisti afrodiscendenti. Tra i suoi clienti ci sono aziende come Amazon, Off-White e Linear Assicurazioni, ma in futuro anche il grande cinema. Guardate l’intervista nel video (con un set d’eccezione) di Sara Lemlem se volete stare al passo con le novità sul melting pot italiano. Cecilia Parini, invece, ha raccontato (senza spoiler) l’esperimento multietnico nella base militare Nato di Chioggia della serie di Luca Guadagnino We are who we are: non si finisce mai di comprendere le nostre radici, mentre Marco Lussemburgo ha parlato di una storia paradigma delle nuove generazioni: Youness Warhou è arrivato in Italia a 15 anni dal Marocco. Ce ne ha messi 10 per lavorare in una multinazionale ed entrare nel Network italiano dei leader per l’inclusione. A voi quanti ne servono per dargli la cittadinanza? E qui torno a chiedermi di nuovo: perché? Perché nel decreto vorrei ma non posso fare una politica coerente non avete riportato i termini per la cittadinanza a come erano prima del decreto Salvini? La riforma della cittadinanza (l’ultima legge è del 1992) non è più procrastinabile.

Foto: Tim Mossholder / Unsplash