Pulizia etnica sembrerebbe pure una bella parola, con quel richiamo al lindore. E invece è la cosa peggiore che ci sia nella relazione tra esseri umani, perché chi la fa pensa di agire per salvaguardare la purezza della sua etnia e per questo è pronto ad usare ogni mezzo. Lo hanno fatto i nazisti con gli ebrei, i turchi con gli armeni e nel 1994 – trenta anni fa, di questi giorni – gli Hutu contro la minoranza Tutsi in Ruanda. Si calcola che dal 7 aprile al 15 luglio di quell’anno, siano stati massacrati a colpi di machete oltre un milione di Tutsi. Di questo parla La famiglia, il libro di Pietro Veronese pubblicato dalle Edizioni e/o. Pietro Veronese, nato a Roma nel 1952, giornalista, ha lavorato per trent’anni a Repubblica, dove è stato inviato speciale e caporedattore Esteri, occupandosi in particolare di Africa a sud del Sahara. I giovani Tutsi scampati a quella strage, rimasti senza nessuno, profondamente feriti nell’anima, inventarono una forma di sopravvivenza unica al mondo. Formarono delle “famiglie d’elezione”, unendosi e nominando tra di loro un padre e una madre che assumessero nella loro vita quei ruoli perduti per sempre. Una di queste famiglie si è formata tra persone che il destino ha portato a vivere e incontrarsi in Italia. Riunisce donne e uomini che al momento del genocidio non si conoscevano, avevano età diverse, dai 4 ai 33 anni, e vivevano in luoghi e contesti diversi all’interno del loro paese. Trent’anni dopo, nove di loro hanno deciso di testimoniare in prima persona la propria storia, componendo un racconto corale di dolore, tragedia, ritorno alla vita, amore e speranza. Fabio Poletti


Pietro Veronese
La famiglia.
Una storia ruandese
2024 Edizioni e/o
pagine 208 euro 18

Per gentile concessione dell’autore Pietro Veronese e dell’editore e/o pubblichiamo un estratto dal libro La famiglia

ALBERT
Settimana dopo settimana, io, i miei fratelli e mia sorella continuammo a restare fino alla fine lì dove eravamo. Quando hai paura e la morte ti ha sfiorato, cominci a perdere la nozione del tempo. E noi avevamo tanta paura quanta non ne avevamo mai nemmeno immaginata. Ogni volta che sentivo in lontananza, dai clamori, che qualcuno era stato preso, pensavo: adesso verranno per me. I militari continuavano a presentarsi da Mama Mugisha per controllare che non ci fossero Tutsi nascosti, o per scovare delle ragazze per il loro piacere. Quando lei era in casa ci sentivamo protetti, ma il problema era quando non c’era.
Con l’avvicinarsi dell’FPR e l’intensificarsi dei combattimenti intorno alla città, gli ospedali erano sempre più pieni e Mama Mugisha era spesso chiamata al lavoro. Avevamo paura anche per nostra madre, perché c’erano dottori e infermieri coinvolti nel genocidio. Qualcuno di loro diceva: Dobbiamo fare pulizia anche qui. E i militari venivano a ispezionare. Questo rendeva la situazione difficile per mamma, che oltre al suo lavoro di levatrice si doveva occupare dei feriti. Da molti giorni era rimasta all’ospedale, per non dover attraversare i posti di blocco. Il 19 aprile è il mio compleanno. Sono del ’71, dovevo compiere ventitré anni. Avevo quest’idea fissa, che la vita possa finire nell’anniversario della propria nascita. Pregai Dio di non farmi morire.
Un giorno di fine aprile Mama Mugisha mi dice: Non nasconderti più tra le piante, ti prenderai una polmonite e poi ti possono vedere. Va’ con Gilbert sopra i mattoni. Questo due giorni dopo che erano venuti a cercarci per l’ennesima volta.
Così mi ricavarono un posto sui mattoni accanto a Gilbert. Stavamo stesi l’uno accanto all’altro. La catasta era alta più di me, circa due metri. Tra le piante potevo muovermi, ma lì sopra no. Faceva caldo e non c’era abbastanza aria per due, ma dovevamo resistere. Puzzavamo e ci grattavamo l’uno con l’altro, eravamo sporchissimi.
La notte uscivamo, ma solo qualche minuto, per evitare rischi. C’era la guerra e chi poteva di notte girava in cerca di informa- zioni, o per chiedere se gli altri avevano qualcosa da dare. C’era un grande andirivieni. Noi uscivamo solo per mangiare e per andare al bagno.
Quei mattoni davvero ci hanno salvato. Dopo qualche giorno però mi convinsi che era meglio separarmi da Gilbert. Mi sentivo più al sicuro nel mio angoletto, fuori, all’esterno. Se qualcuno si avvicinava potevo sempre nascondermi in un altro punto della recinzione di euforbie.
L’avanzata dell’FPR continuava. Sentivamo il rumore delle battaglie. L’FPR cercava di prendere il controllo delle alture intorno e dentro alla città. Quando c’erano i combattimenti la caccia all’uomo si fermava. In un certo senso per noi non era un male, perché il quartiere si svuotava anche delle spie, gli informatori si dileguavano. I cacciatori tornavano dopo, ma meno numerosi. Anche loro avevano i loro morti. Quanto a me, avrei preferito morire sotto una bomba o per un proiettile che per un colpo di mazza o di machete.
Malgrado quelle pause c’era sempre pericolo che ci trovassero. Man mano che l’FPR si avvicinava, i miliziani diventavano sempre più rabbiosi. Cercavano chi si nascondeva, non solo a Nyamirambo ma un po’ ovunque. Spesso, lì dove mi trovavo venivano i cani e in qualche modo mi proteggevano, perché gli interahamwe pensavano che quello fosse un posto per loro e non per gli umani. I cani venivano, stavano qualche minuto e poi si allontanavano.
Anche se da bambino ero stato aggredito da un cane e ne ero rimasto traumatizzato, devo ammettere che devo a un cane in particolare la mia salvezza: quando vedeva i cattivi avvicinarsi a controllare che non ci fosse nessuno nascosto lì, abbaiava e ringhiava, faceva per morderli, come per proteggermi. Le figlie di Mama Mugisha spiegavano ai cacciatori che lì c’era la cuccia del cane ed era meglio stare alla larga. Era diventato il mio cane da guardia e non sapevo nemmeno da dove era arrivato.
Ai primi di maggio l’offensiva dell’FPR rallentò e la caccia riprese in grande stile, come all’inizio. Noi tutti, anche Mama Mugisha, avevamo paura più di ogni altra cosa di quelli che scappavano dalla battaglia, militari inferociti che accompagnavano l’apparato governativo che si stava ritirando verso Gitarama, a sud.
Intanto la fame era entrata nelle case. Passava continuamente gente a chiedere un po’ di riso o di fagioli. Per fortuna noi mangiavamo poco, perché la paura bloccava l’appetito, così Mama Mugisha aveva un po’ di cibo da distribuire.
Io persi dieci chili. Eravamo diventati tutti molto magri. Déo stava male, Mama Mugisha gli rifaceva le fasciature ogni notte. Fin dai primi giorni del genocidio sentivamo i camion che venivano a prendere i corpi. Avevano paura delle epidemie e non volevano lasciare prove. Si diceva che fossero i detenuti, riconoscibili dalle loro camicie rosa, a raccogliere i cadaveri. Li portavano nelle fosse comuni che venivano scavate con i macchinari del ministero dei Lavori pubblici. A quel tempo in Ruanda le case non avevano i bagni. C’erano delle lunghe buche, icyobo in kinyarwanda, usate come latrine. Erano quelle a fare da fosse comuni. Ti ammazzavano e ti ci buttavano dentro. Nascosti come eravamo, non potevamo vedere niente; ma ci dicevano che erano i camion del ministero dei Trasporti o dei La- vori pubblici a portare i cadaveri verso le fosse, con i detenuti a fare da inservienti.
Tutti avevamo paura di finire nell’icyobo. Ti portavano a un icyobo nuovo, scavato di fresco, mettevano tutti in fila e uccidevano a colpi di mazza o di machete. Se eri fortunato ti sparavano. L’icyobo si riempiva immediatamente. Se qualcuno ti dice oggi che non sa dov’è finito suo padre, sua madre o sua sorella, è per questo.

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