L’unica zingara che ci piace è Carmen, la protagonista dell’opera di George Bizet tratta dalla novella di Prosper Mérimée. Opéra-comique chissà perché, secondo la definizione degli autori, anche se si sa come va a finire. Davanti a Carmen dimentichiamo, bell’aspetto, abile di lingua e col coltello, dimentichiamo tutti gli stereotipi sugli zingari, ladri se uomini, puttane se donne e tutto il resto. In questa contrapposizione si inserisce il testo di Patrizia Pertuso, Antropologia e Teatro. Intrecci e Corrispondenze, pubblicato da Mnamon editore. In questo saggio Patrizia Pertuso, doppia laurea in Metodologia della Critica Teatrale alla Sapienza di Roma e in Scienze antropologiche ed etnologiche all’Università Milano Bicocca, giornalista al quotidiano free Metro dove si occupa di cultura e spettacoli, guarda con l’occhio dell’antropologa le trame degli spettacoli di teatro. Nel saggio passano sotto il suo sguardo Turner e Turnbull, Schechner, Barba e soprattutto l’immenso regista teatrale britannico Peter Brook, morto a luglio del 2022, che dalla prima messa in scena del 1942 di Doctor Faustus di Christopher Marlowe non si è più fermato. Tra le sue regie memorabili rimangono I fratelli Karamazov di Fëdor Dostoevskij, Romeo e Giulietta di William Shakespeare, Morte di un commesso viaggiatore di Arthur Miller e mille altre. Tra le più recenti l’adattamento dell’epopea indiana del Mahabharata finito sul grande schermo con l’indimenticabile Vittorio Mezzogiorno scomparso troppo presto e appunto La tragédie de Carmen, messa in scena non più come opera comica ma, appunto, più appropriatamente come tragedia.Spiega in un’intervista all’agenzia Agi Patrizia Pertuso: «Ho scelto di leggere quella donna zingara in chiave antropologica: in lei albergano tutti gli stereotipi che aleggiano su chi è diverso. Se poi quel diverso è donna, diventa immediatamente il simbolo del male. Brook nella sua opera ha “epurato” dalle connotazioni folkloriche quel personaggio, ha cancellato un “noi” etnocentrico che trova forma e sostanza solo nel confronto con l’”altro” e ha portato in scena una storia in cui non necessariamente il Bene e il Male si trovano su fronti opposti e vantano confini ben definiti. Puntare lo sguardo sull’altro senza aver bisogno di lui per affermare la nostra identità (o alterità) è quello che dovremmo fare un po’ tutti». Fabio PolettiPatrizia PertusoAntropologia e Teatro. Intrecci e Corrispondenze. 2023 Mnamon editorepagine 192 euro 21

Per gentile concessione dell’autrice Patrizia Pertuso e dell’editore Mnamon pubblichiamo un estratto dal libro Antropologia e Teatro. Intrecci e corrispondenze.«Per ragioni personali e umane, ma anche sociali, per me è importantissimo combattere con ogni mezzo il razzismo intorno a noi. Ma con i fatti perché le dichiarazioni non servono a nulla». Era il 1988 e Peter Brook scriveva ne “Il punto in movimento” queste parole decretando la necessità del teatro di uscire dal teatro e diventare un mezzo politico che coinvolgesse la società. Una società fatta da mille sguardi, tutti diversi, tutti di uguale dignità, tutti compresi in quella Rainbow Theory per la quale «in ciascun essere umano risiede l’intera gamma dei colori»; è solo grazie alla luce che se ne vede uno piuttosto che un altro.In quell’arcobaleno di luci rientra la vita artistica di Brook: l’Africa che il regista incontra nei suoi viaggi in luoghi in cui il teatro occidentale era sconosciuto; l’India narrata nel poema epico Mahabharata; la Persia della Conference des Oiseaux impregnata di sufismo, e l’universo zingaro della Carmen di Prosper Merimée.La novella dello scrittore francese con Peter Brook cambia titolo. Il regista vi inserisce il termine “tragedia”: non più, dunque, opéra comique per un pubblico benestante della Parigi del 1875, quando va in scena per la prima volta nella sua veste di opera lirica firmata da Bizet, Meilhac e Halevy. O per l’altrettanto benestante pubblico che ancora oggi partecipa all’inaugurazione della stagione lirica dell’Arena di Verona che spesso apre proprio con quell’opera. Con Brook diventa La tragedie de Carmen.Quella donna zingara, nell’opera lirica, doveva (e deve tuttora, purtroppo) incarnare il Male. Per ribadire il Bene, quello del pubblico francese di fine Ottocento che, come di fronte a un’antica tragedia greca – Aristotele docet, doveva osservare attentamente lo spettacolo per non ripetere l’orrore commesso in scena dal Diverso. Carmen è l’Altro, l’Altrove, il Diverso insomma.Nell’opera lirica convivono nel personaggio di Carmen tutti gli stereotipi della zingara individuati dall’antropologo Leonardo Piasere, creati ad arte dalla ventata di antiziganismo che aleggia sull’Europa: ladra, prostituta, strega, corpo utile per far figli, indegni esattamente come lei. Madre inaccettabile per i servizi sociali di un “civilissimo” Occidente che troppo spesso la giudicano come sfruttatrice della prole e, contemporaneamente, come un corpo contenitore di figli che le devono essere tolti anche se difficilmente verranno adottati perché in pochi sono disposti “a mettersi uno zingarello in casa”.Peter Brook prende quella donna e le restituisce la sua identità originaria puntando sulla tragicità del personaggio: una donna che accetta la morte, predetta dalle carte e vissuta come ineluttabile gioco di destino e vita. Così Carmen cambia faccia e si veste dell’arcobaleno della Rainbow Theory. Appare spesso vestita di nero, un colore che la accompagna verso l’idea occidentale di lutto, ma che in realtà esprime l’essenza e la compresenza di Eros e Thanatos. Amore e morte, amore e sangue, amore e vita. Il regista opera una spoliazione dei luoghi comuni, degli stereotipi, dei tabù: conserva solo, come dice lui stesso «il dramma nella sua essenza». Quell’andare incontro alla morte con fierezza e dignità in nome di un destino sovrano la fa diventare un’eroina tragica che si incammina verso il Mito. Nessun tentennamento come in Amleto. Nessun pentimento come in Don Giovanni. Nessuna possibilità di fuga come in Edipo. La tragicità di Carmen è tutta in quegli occhi fieri che gettano lo sguardo oltre la morte. A differenza sia dalla novella che dall’opera lirica, nella messinscena di Brook riceve un’unica coltellata, alle spalle. Si accascia in terra, nel luogo che lei stessa aveva indicato al suo assassino, Don Jose. Muore nell’essenzialità del racconto, tornando al vuoto di uno spazio spoglio in cui la sua Storia si è ormai compiuta. Per sua scelta.«È qui», dice Carmen. In quello Spazio e in quel Tempo, il Tragico trova compimento: il Male viene annientato dalla Morte. La zingara – madre indegna, prostituta, ladra e strega – viene uccisa. L’“Altro” se ne va. Restiamo noi, con i nostri sguardi puntati su uno spazio vuoto. Quello spazio che bastava a Peter Brook per far Teatro purché qualcuno lo attraversasse e qualcun altro lo osservasse. Anche se sempre più spesso da quel vuoto capita che non nasca più molto se non l’ennesimo luogo comune: in fondo, si tratta solo di teatro…Tutti i dritti riservati