Se diciamo guerra di questi tempi il pensiero va all’invasione dell’Ucraina da parte della Russia. Se invece adoperiamo la parole conflitto, i termini della questione cambiano. Non c’è tema divisivo che non porti al conflitto. Commercio, infrastrutture, diritto, migrazioni, social media: nel libro L’era della non-pace pubblicato da Egea, Mark Leonard spiega perché le connessioni che uniscono il nostro mondo siano le stesse che lo stanno disgregando. E che stanno facendo deflagrare conflitti sociali sempre più evidenti, che si parli di identità di genere e comunità LGQBT+, identità nazionali e migrazioni, utero in affitto e autodeterminazione. Non c’è tema che porti al conflitto, che non passi sotto gli occhi attenti di Mark Hugo Leonard, politologo e scrittore britannico, direttore dell’European Council on Foreign Relations, da lui fondato nel 2007. Dal 2004 scrive per Project Syndicate, un’organizzazione mediatica internazionale. Il suo non è solo lo sguardo dell’intellettuale distaccato, ma come civil servant ogni sua analisi può esserci d’aiuto per ritrovare la giusta direzione e una nuova coesione sociale. Come lui stesso ci dice: «Non è troppo tardi per cambiare rotta. È una questione di autoconsapevolezza. Invece di trattare i nostri conflitti come forze esterne, dobbiamo capire che traggono origine dal nostro stile di vita e dalle nostre scelte (non solo le grandi decisioni ma anche quelle piccole che neanche ci accorgiamo di aver preso). Analizzando noi stessi possiamo prepararci ai problemi e capire quali opzioni ci restano. Il nostro obiettivo non deve essere quello di fare a meno della connettività, ma di disarmarla. Dobbiamo cercare di eliminare il veleno dall’interdipendenza o almeno imparare a coesistere con poteri motivati da valori che non condividiamo». Fabio Poletti
Mark Leonard
L’era della non-pace
Perché la connettività porta al conflitto
Prefazione di Marta Dassù
2023 Egea
pagine 240 euro 29,50 ebook euro 20,99
Per gentile concessione dell’autore Mark Leonard e dell’editore Egea pubblichiamo un estratto dal libro L’era della non-pace.POLITICA DELLA RIPRESA DEL CONTROLLO L’hanno chiamata Occupazione di Praga. Il 21 agosto 2016 una jeep battente bandiera ISIS è entrata in Piazza della Città Vecchia, gremita di uomini barbuti che sparavano al grido di «Allahu Akbar». Il loro capo crivellava il cielo con un mitra, urlando: «Vi portiamo la luce della vera fede!». Gli astanti, in preda al panico, sono corsi via rovesciando tavoli e sedie e lasciandosi alle spalle i feriti. C’è voluto un po’ di tempo per capire che l’imam che guidava l’assalto, Martin Konvicka, era un attivista anti-immigrazione, non un terrorista dell’ISIS. Armati di cammello, capra, barbe e pistole finte, Konvicka e i suoi avevano organizzato l’evento per dimostrare come sarebbero andate le cose se si fosse permesso a troppi rifugiati musulmani di entrare nella Repubblica Ceca. La polizia ha interrotto l’esibizione prima che raggiungesse il suo culmine (la finta decapitazione di un infedele) ma su Facebook Konvicka ha scritto che la dimostrazione era stata un successo. La data prescelta era intenzionalmente simbolica: l’anniversario dell’invasione sovietica del 1968. Sebbene le sue tattiche fossero a dir poco eccentriche, la protesta di Konvicka è stata studiata fin nei minimi particolari per cavalcare i nuovi umori della nostra politica connessa. È stata calibrata per sfruttare tutte le criticità descritte nel Capitolo 2: la polarizzazione identitaria, l’invidia e la sensazione delle comunità locali che i loro paesi siano sotto il giogo di forze su cui hanno scarso controllo. Il nuovo nazionalismo che rappresenta è un prodotto della connettività. Ed è uno dei motivi per cui la geopolitica tende alla competizione piuttosto che alla cooperazione. Ironia della sorte, solo qualche settimana prima della manifestazione di Konvicka si era svolta a Londra una protesta più «canonica» su temi analoghi, ma diretta contro l’immigrazione dai paesi dell’Europa orientale, tra cui la Repubblica Ceca. In piedi sul grande palco dello stadio di Wembley per il dibattito conclusivo della campagna referendaria sull’adesione del Regno Unito all’UE, il politico Boris Johnson aveva esortato i suoi concittadini a riprendersi il controllo dei propri confini, delle proprie finanze e delle proprie vite. «Se votiamo per uscire», ha tuonato, «giovedì prossimo potrebbe essere il giorno dell’indipendenza del nostro paese». Konvicka e Johnson non saranno gli eredi naturali di Thomas Jefferson, Mahatma Gandhi e Jomo Kenyatta, ma i temi della sottomissione e dell’esclusione che essi incanalano contengono un richiamo diretto ai movimenti anticolonialisti di epoche precedenti. «Il mondo colonizzato è un mondo diviso in due […] abitato da specie differenti», sosteneva Frantz Fanon nel suo libro I dannati della terra, diventato la Bibbia della decolonizzazione negli anni Sessanta. Fanon parlava di un mondo a compartimenti stagni, in cui la maggioranza della popolazione nativa viveva in aree, culture e condizioni economiche diverse da quelle delle élite. Parlava anche del tributo emotivo pagato dai nativi, che si sono sentiti privati del rispetto, emarginati e accusati di essere irrazionali e mossi da pregiudizi. Le campane della libertà hanno fatto risuonare i loro rintocchi nel corso dei decenni, spronando i movimenti di liberazione nazionale, evocando nuove nazioni che rivendicavano i propri Stati e disegnando un mappamondo sempre più frammentato. E il 21 giugno 2016 Alexander Boris de Pfeffel Johnson ha deciso di dare il via alla quinta ondata di decolonizzazione. Ma questa volta sarebbe stata diversa: il processo di decolonizzazione era interno. Era il tentativo della maggioranza «indigena» di liberarsi dal controllo esercitato a suo dire dalle élite cosmopolite e dalle popolazioni di immigrati che queste avevano importato. A fare da contraltare a tale spinta secessionista sono state ben presto le regioni interessate a rimanere nell’UE, altrettanto desiderose di affrancarsi dalle nuove élite indipendentiste prodotte dalla Brexit. Lo Scottish National Party ha rimesso sul tavolo la questione dell’indipendenza scozzese, mentre una petizione per l’indipendenza di Londra ha raccolto l’improbabile cifra di 175.000 firme nei giorni successivi al referendum sulla Brexit. Uno dei paradossi del mondo connesso è che quasi tutti possono fare fronte comune con un numero sufficiente di persone che viaggiano sulla stessa lunghezza d’onda e fondare una comunità politica percorribile. Più il mondo diventa connesso, più si frammenta. E la connettività dà a ciascuna di queste circoscrizioni dei motivi per provare invidia, paura e ostilità reciproca. Tale dinamica fa aumentare la conflittualità all’interno dei confini nazionali. © 2021 by Mark Leonard © 2023 Egea S.p.A. Bocconi University Press
CULTURE NAZIONALI DI NON-PACE: LA