La candela accesa circondata da filo spinato in campo giallo è da anni un brand che ci porta ad una delle più meritevoli associazioni in tema di difesa dei diritti umani: Amnesty International. L’organizzazione fu fondata a Londra il 28 maggio 1961 dall’avvocato inglese Peter Benenson, quando lanciò sul The Observer di Londra un appello dal titolo I prigionieri dimenticati, riferito all’arresto e alla condanna in Portogallo di due studenti colpevoli di aver brindato alla libertà delle colonie. L’organizzazione conta oggi oltre sette milioni di soci sostenitori, che risiedono in più di 150 nazioni e ha ricevuto il Premio Nobel per la pace nel 1977 per l’attività di “difesa della dignità umana contro la tortura, la violenza e la degradazione”. Nel 1978 è stata insignita del Premio delle Nazioni Unite per i diritti umani. In questo Amnesty International in Italia, pubblicato dalle Edizioni e/o, Antonio Marchesi ricostruisce la storia e l’impegno di Amnesty International visto dal nostro Paese. Il suo è un racconto in presa diretta visto dall’interno. Antonio Marchesi insegna Diritto internazionale e Protezione internazionale dei diritti umani nel Dipartimento di Giurisprudenza dell’Università di Teramo. È iscritto alla sezione italiana di Amnesty International dal 1977 e ne è stato Presidente dal 1990 al 1994 e dal 2013 al 2019. Ha collaborato in qualità di consulente con il Segretariato internazionale di Amnesty International, il Consiglio di Europa, il Parlamento e la Commissione europea e diverse ONG. Dal 2017 è esperto in diritti umani per il GNPL il Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale. Il lavoro che svolge Amnesty International, un faro acceso su 150 Paesi nel mondo, è enorme. Il suo rapporto annuale è spesso di stimolo per campagne in difesa dei diritti di detenuti o di chi è stato vittima di repressioni, per cercare di arrivare alla verità. Come nel caso di Giulio Regeni il ricercatore italiano assassinato al Cairo, per cui Amnesty International si sta battendo da sempre per arrivare alla verità sulla sua morte. Fabio PolettiAntonio MarchesiAmnesty International in Italia2023 Edizioni e/opagine 192 euro 12

Per gentile concessione dell’autore Antonio Marchesi e delle Edizioni e/o pubblichiamo un estratto dal libro Amnesty International in Italia.Proteggere i rifugiati può costare caroSempre di applicazione del mandato, e sempre di riconoscimento o meno dello status di prigioniero di coscienza, ho avuto occasione di occuparmi nella mia prima missione per conto del movimento internazionale quando da Londra, dove avevo da poco preso servizio nell’ufficio legale, fui spedito in Arizona, a seguire un processo. Il compito dell’osservatore processuale – il trial observer – di Amnesty è in genere quello di preparare un rapporto sulla regolarità o meno della procedura. Il mio, in quel caso, era diverso: dovevo raccogliere elementi per decidere se avviare o meno un’azione per il rilascio degli attivisti del Sanctuary movement, un gruppo interconfessionale – di cui facevano parte pastori protestanti, rabbini, ma anche esponenti di confessioni religiose più eterodosse – che assisteva rifugiati dal Centro America a passare la frontiera messicana, per poi nasconderli nelle proprie chiese, sinagoghe o templi. Era, insomma, un classico caso di disobbedienza civile, di violazione di norme statali in nome di una legge morale superiore.Trascorsi una decina di giorni a Tucson, ascoltando le arringhe degli avvocati e incontrando attivisti locali. Al mio ritorno, nel bel mezzo di una riunione in vista della quale mi ero a lungo preparato per illustrare gli argomenti in favore del riconoscimento di quelli del Sanctuary movement come prigionieri di coscienza, Thomas Hammarberg, segretario generale dell’epoca, mi chiese a bruciapelo: e gli argomenti contro? Dopo un iniziale smarrimento, fedele alla linea della sezione italiana che era tradizionalmente favorevole a una lettura espansiva del mandato, riposi “nessuno” (provocando, con mio grande sollievo, l’ilarità dei presenti e ottenendo una decisione in linea con le mie aspettative).Si può fare di più?Oltre che di interpretazione delle rigide regole all’epoca esistenti, nei primi quarant’anni di vita del movimento si è discusso, spesso in modo accanito, della loro possibile modifica. Si erano formati due schieramenti: i conservatori, difensori del mandato limitato delle origini, in alcuni casi veri e propri custodi dell’ortodossia, e i riformisti, che volevano che Amnesty International si occupasse di più cose (anche a costo, per così dire, di tirare per la giacca l’organizzazione). Le volte, non particolarmente frequenti, in cui un ampliamento del mandato c’è effettivamente stato, questo è avvenuto in modo graduale e al termine di confronti estenuanti.Oltre a essere piuttosto acceso, il dibattito interno sul mandato era viziato da una certa incomunicabilità culturale. La regola della copertura globale comportava che alle considerazioni di principio avanzate dai riformisti i conservatori replicassero facendo valere considerazioni pratiche: lo staff del Segretariato inter- nazionale sosteneva di non avere i mezzi per occuparsi, continuando a rispettare nel contempo la copertura globale, di casi di violazioni che con l’ampliamento del mandato sarebbero inevitabilmente aumentati di numero. Non si trattava soltanto di prendere pubblicamente posizione contro una pratica inaccettabile o di diffondere un comunicato stampa critico di un determinato governo, ma di fare ricerca per accertarsi della veridicità dei fatti che si denunciavano (che è cosa ben più impegnativa) e poi di fare qualcosa di concreto e possibilmente di efficace per risolvere i problemi di ogni vittima… su questo, sul non voler essere “semplicemente” un movimento di opinione, ritornerò più avanti. La sezione italiana – giovane e un po’ disallineata in un contesto dominato da anglosassoni e nord-europei – era sempre propensa a sposare la causa dell’ampliamento del mandato, fondando le proprie argomentazioni su ragioni ideali. Lanciavamo il cuore oltre l’ostacolo, scontrandoci con un pragmatismo che, nonostante fossimo parte integrante di Amnesty International, non era tanto nelle nostre corde.Abbiamo sostenuto con passione la tesi che il movimento avrebbe dovuto impegnarsi per ottenere processi equi e tempestivi non soltanto per i prigionieri politici, ma per tutti. Si tratta di un diritto che spetta a ogni persona… perché chiederne il rispetto solo nei confronti di alcuni? La replica, di fronte a un ragionamento che a noi pareva ineccepibile, era che, per fare adeguatamente ricerca sulle violazioni dei diritti processuali anche dei prigionieri ordinari, sarebbe servito uno staff di ricercatori cinque o dieci volte più numeroso. La nostra proposta poteva pure essere condivisibile in linea di principio, ma era impraticabile, velleitaria, e dunque andava respinta. Così, in ripetute occasioni, è avvenuto. C’erano, in verità, anche altri argomenti contro: per esempio, che i processi iniqui (così come anche la detenzione preventiva prolungata) costituiscono un fenomeno differente a seconda che lo si riferisca ai soli prigionieri politici o a tutti i prigionieri: uno strumento di repressione nel primo caso, una disfunzione strutturale nel secondo. Il motivo decisivo per non raccogliere la nuova sfida però era l’altro, quello della mancanza di risorse, che alle sezioni del Nord Europa sembrava insuperabile, a noi, invece, un po’ gretto.Tutti i diritti umani per tuttiNel 2001, quarantesimo compleanno di Amnesty, è iniziato un percorso che avrebbe portato, nel 2007, a un cambiamento della cui portata pochi oggi, anche all’interno del movimento, sono pienamente consapevoli. Muta radicalmente il modo in cui l’organizzazione intende il proprio ruolo nell’ambito del più ampio movimento internazionale per i diritti umani. Dopo avere attraversato una fase intermedia – utile a convincere gli indecisi e a gestire il cambiamento si è passati dal mandato limitato al full spectrum, ossia all’impegno per ottenere il rispetto di tutti i diritti umani internazionalmente riconosciuti di tutte le persone.Ciò che Amnesty International può fare, a partire da quel momento, è difendere qualunque diritto umano di chiunque. Scompaiono i confini tra attività “ammissibili” e “inammissibili”, tra ciò che è dentro e ciò che è fuori dal mandato… che non esiste più. Viene abolita anche la regola della copertura globale: è evidente, infatti, l’impossibilità di attivarsi contemporaneamente contro tutte le violazioni di tutti i diritti umani di tutti in ogni parte del mondo. Ciò che, di volta in volta, si fa in concreto diventa allora una questione di scelta e non più di limiti regolamentari: in altre parole, una questione di strategia… che ha, tra l’altro, l’effetto di rendere Amnesty International un’organizzazione assai più politica di quanto non fosse in passato.© 2023 by Edizioni E/O