Di mamma ce n’è una sola. Di Europa magari no. C’è l’Europa che si fa in quattro per sostenere l’Ucraina invasa dai soldati russi, anche se a Strasburgo si inizia a intravedere più di una crepa. E quella che chiude gli occhi davanti ai profughi e ai migranti che attraversano il Mediterraneo per sbarcare sulle coste meridionali dell’Italia o scarpinano in condizioni disumane attraverso i Balcani, per cercare di entrare in Europa da Est. In questo Mamma Europa, pubblicato da Il Mulino, Elisabetta Gualmini ci racconta dall’interno l’Europa che sarà, dopo la pandemia e gli scandali che hanno imposto un cambio di passo alle istituzioni comunitarie. Il suo è uno sguardo privilegiato.Fabio Poletti Elisabetta Gualmini Mamma Europa Una nuova unione dopo crisi e scandali 2023 Il Mulino pagine 224 euro 18
Elisabetta Gualmini è professore ordinario di Scienza politica nell’Università di Bologna e dal 2019 Membro del Parlamento europeo nel gruppo dell’Alleanza Progressista dei Socialisti e dei Democratici. Nella scorsa legislatura è stata vice Presidente della regione Emilia-Romagna. È stata inoltre Presidente dell’Istituto Cattaneo. Ha scritto numerosi libri e saggi sulla politica e le politiche pubbliche italiane ed europee. La scommessa di questo libro, nell’analisi delle molteplici sfaccettature dell’istituzione comunitaria è che l’Europa sia finalmente capace di rispondere alle esigenze dei suoi cittadini. Una scommessa tutt’altro che facile davanti alla quale la deputata di Strasburgo mette il suo impegno carico di ottimismo: «Dopo lo scandalo di Bruxelles non si potrà più dire che in Europa non succede nulla, che non vale la pena impegnarsi. Dal maggio 2019 è successo di tutto: la ferita della Brexit, la pandemia, la guerra, la corruzione. E l’Europa ha potuto fare solo una cosa: trasformarsi profondamente e finalmente tendere la mano ai propri cittadini».Per gentile concessione dell’autrice Elisabetta Gualmini e dell’editore Il Mulino pubblichiamo un estratto dal libro Mamma Europa.
Rimango sempre molto colpita dalla generosità dei volontari delle associazioni che si occupano di migranti, dalla loro forza e dal loro impegno, che suppliscono molto spesso all’azione delle istituzioni pubbliche, e senza i quali la nostra accoglienza sarebbe molto più lacunosa e insufficiente. Andiamo noi stessi nella piazza davanti alla stazione e verso sera ecco che vediamo arrivare un gruppo di ragazzi, molto giovani, con i piedi spellati e incancreniti, distrutti, pieni di ferite. Una delle dottoresse presenti, probabilmente in pensione, li fa sedere sulle panchine, e portandosi dietro uno zaino a forma di cubo con i medicinali di emergenza – un po’ come quello dei riders – comincia a curare le ferite. I medici volontari sono in qualche modo i ciclo-fattorini delle cure, i pony express dell’assistenza di primo impatto. I medici ci raccontano come le malattie ai piedi e all’intestino siano numerose, perché in questi viaggi durissimi chi fugge è spesso costretto a mangiare foglie e a bere acqua e fango. Si uniscono poi i volontari che si occupano dei pasti e dei vestiti e io guardo sbigottita questa scena di prima accoglienza, in mezzo a una piazza, su una panchina, senza altro equipaggiamento che l’impegno dei volontari. Mi chiedo dove andranno queste persone dopo una prima accoglienza prestata sul campo, priva di qualsiasi struttura di appoggio. Scambio qualche parola con i ragazzi appena arrivati e mi colpisce l’enorme dignità che mostrano. Sono contentissimi di essere arrivati in Italia, benché affamati, infreddoliti e ignari di quello che sarà di loro. Partiamo poi per Bihać, in Bosnia-Erzegovina, dove arriviamo di notte, dopo quattro ore e mezzo di viaggio – di cui l’ultima parte su strade dissestate, senza asfalto, completamente buie, in mezzo a boschi e foreste – in cui io stessa mi sento male. Il mattino dopo facciamo colazione con i rappresentanti di alcune organizzazioni internazionali che lavorano a Bihać e che si occupano della gestione dei campi profughi: l’Organizzazione internazionale per le migrazioni (Oim), Unhcr, l’Agenzia Onu per i rifugiati, Ipsia, una delle associazioni più attive tra quelle che lavorano in Bosnia. Incontriamo anche l’ambasciatore italiano in Bosnia. A Bihać chiediamo informazioni sulle modalità di utilizzo dei fondi europei (90 milioni erogati dalla Commissione dal 2018 al 2020) e degli altri finanziamenti elargiti dagli Stati nazionali, tra cui la Svizzera, la Germania, la Repubblica ceca, la Repubblica slovacca e anche l’Italia (1,6 milioni dal nostro Ministero degli Esteri nel 2020-2021). Sembra dunque che le risorse non manchino, e poiché in Bosnia-Erzegovina non esiste una competenza nazionale sulla politica migratoria, sono le organizzazioni internazionali e i governi regionali e locali a gestire i fondi che arrivano. Il fatto poi che coesistano, non senza difficoltà, al governo del paese i rappresentanti delle tre diverse componenti della popolazione bosniaca (croata, serba e bosgnacca) non aiuta ad avere un quadro preciso della di- visione del lavoro, e rendiconti aggiornati e accessibili. Veniamo comunque rassicurati dal fatto che una gran parte dei finanziamenti è stata convogliata sulla costruzione del nuovo campo di Lipa, dopo la devastazione dell’incendio. Ci rendiamo conto, peraltro, di come siano relativamente pochi i migranti che stazionano nel limbo della Bosnia (4.000 profughi registrati ufficialmente e altri 6.000 circa non registrati) e come sarebbe «facile» da parte di 27 paesi europei e di 500 milioni di cittadini accoglierli in fretta e in condizioni dignitose. E invece uomini, donne e bambini rimangono accampati alla meno peggio nelle tendopoli ai piedi delle montagne, provando anche decine di volte a superare il cosiddetto game della rotta balcanica, cioè ad arrivare in Europa senza essere rispediti indietro alla casella di partenza come in un terribile gioco dell’oca. Il numero di profughi respinti alla frontiera con la Croazia (o meglio «pushbeccati» dall’inglese pushback) e ricacciati nelle tendopoli, non senza violenze, botte, furti, è altissimo. Nel cuore dell’Europa, si trattano poche migliaia di migranti come merce di scambio o pacchi postali da rinviare quanto prima al mittente. È inutile dire che le denunce sono state e continuano ad essere moltissime, ma ad oggi i risultati concreti non sono tanti. Durante la missione abbiamo visitato poi diversi centri di accoglienza, fino ad arrivare al campo di Lipa. A Birači veniamo accolti dai gestori di una struttura che ospita famiglie. Gli spazi sono adeguati e, nonostante le difficili condizioni imposte dal Covid, i bambini e le bambine possono seguire percorsi scolastici ad hoc sia all’interno che fuori, nelle scuole bosniache. Molte famiglie però non sono contente di stare lì, perché quel centro è troppo lontano dalla frontiera, che rimane l’obiettivo principale, l’ossessione assoluta per questi viaggiatori che non si ar- rendono mai. In quel centro ricordo una bimba bellissima, Halima, di tre anni, che mi seguiva ovunque; aveva capito che ogni tanto facevo qualche scatto col cellulare e appena riusciva si metteva davanti a me in posa per farsi ritrarre, come una mini-attrice consumata. Velocissima, spuntava fuori da tutte le parti e si faceva fotografare decine di volte con la spensieratezza di una bimba di tre anni che forse nella sua breve vita non aveva visto altro che quelle stanze umide e quel refettorio, che non aveva sentito che quegli odori, un misto di cucina da campo e disinfettante. Finalmente arriviamo a Lipa, in un campo costruito in una terra di nessuno, in una specie di limbo grigio, alla fine di strade dissestate, ai piedi delle montagne, in una zona invisibile e lontanissima dai centri abitati. Metto il naso dentro alle tende verde militare e vedo dei ragazzi, ammassati dentro. Mi colpiscono la loro giovane età e il freddo che fa, anche all’interno. Vado poi nello stanzone adibito a mensa e sala comune e mi siedo insieme ad alcuni ospiti del campo. Ibrahim, un insegnate pakistano di inglese, mi racconta che ha provato a giocare al game, cioè ad attraversare la frontiera, per ben 26 volte, e che ci avrebbe riprovato. Racconta di essere stato picchiato e denudato, e rimandato indietro in mutande. Ha una moglie e un padre in Grecia, la figlia e la madre in Turchia, e chiede a noi che si faccia pressione perché a Lipa almeno le docce abbiano l’acqua calda. La situazione che abbiamo osservato a Lipa, va detto, nel corso del tempo è migliorata. Organizzazioni come Oim e Unhcr hanno costruito un nuovo insediamento con spazi comuni riscaldati e container per la notte, molto piccoli ma certamente preferibili rispetto alle tende montate alla meno peggio o a dormire all’addiaccio. L’impegno di associazioni come Ipsia, Croce rossa, Caritas, Sos è insostituibile. Ma l’impressione rimane quella dell’esilio, del confinamento di uomini e donne lontano dal resto del mondo, sospesi nel tempo e nello spazio. Non c’è nulla di normale nella vita che scorre a Lipa: è un non-luogo, una situazione sospesa, ci si sente fisicamente separati rispetto a ciò che sta fuori. Proviamo a considerare le conseguenze, se non fisiche anche solo psicologiche, su persone che vivono tre, otto, dieci anni così. Per non parlare dei profughi che perdono la vita nel tragitto tragico e surreale del game. Tenere insieme le contraddizioni di un’Europa che da una parte si è ricompattata di fronte agli shock esterni e che è stata capace di dimostrare solidarietà e protezione, e che dall’altra si rinchiude in sé stessa e nei propri egoismi più radicati di fronte agli ultimi del mondo, non è semplice. La gestione delle politiche migratorie e le terribili condizioni della rotta balcanica e dei suoi disperati itineranti sono lì a ricordarci che il puzzle ancora non torna. E che le svolte raccontate in questo volume, seppure dirompenti come quella che ci accingiamo a descrivere nei paragrafi successivi di questo capitolo, hanno bisogno di tempo per contagiare ambiti e settori vicini. © 2023 by Società editrice il Mulino, Bologna