Negli anni Venti, Duke Ellington entrava dalla porta di servizio per suonare sul palco del Cotton Club a New York. Nel 1927 il protagonista de Il cantante di jazz, il primo film sonoro della storia, appariva in scena con il volto coperto di nerofumo. Si chiamava Al Jolson, era bianco, faceva il cantante afroamericano. C’era addirittura un genere, il minstrel show, in cui attori bianchi si mascheravano da neri per sketch musicali profondamente razzisti. È passato un secolo e in Italia siamo ancora lì. Al rapper italotunisino Ghali che giustamente si arrabbia perché a “Tale e quale show” su Rai 1, quindi rete pubblica, c’è chi lo ha imitato dipingendosi la faccia di nero:

Potete dire che esagero, che mi devo fare una risata e che non si vuole offendere nessuno, lo capisco. Ma per offendere qualcuno basta semplicemente essere ignoranti, non bisogna per forza essere cattivi o guidati dall’odio

Siamo sempre lì. Una pratica che negli Stati Uniti è stata cancellata perché profondamente razzista già negli anni Cinquanta, da noi continua imperterrita. L’imitatore di Ghali è l’ultimo nell’odiosa pratica del blackface in cui sono caduti tanti, pure troppi. Da Totò a Ugo Tognazzi, per capirci. Il fatto è che dipingersi la faccia di nero è un insulto verso chi per il colore della propria pelle deve affrontare odi e pregiudizi. Anche negli anni Venti di questo secolo, dove pure alle nuovissime generazioni, nate qua, residenti qua, più italiane di un italiano, capita sempre la domanda insidiosa sulle proprie origini.

A volte il blackface viene adottato in buona fede, ma gli effetti sono sempre quelli. Come i giocatori di una squadra di calcio di una serie minore che qualche anno fa si dipinsero il volto di nero, per essere “vicini” al compagno insultato in campo con offese razziste. O al pizzaiolo napoletano, che per esprimere solidarietà a un calciatore africano da tempo in Italia, preso di mira da tifosi razzisti, si dipinse il volto di scuro. A decidere se fosse cosa buona sono sempre stati naturalmente i bianchi, che certe discriminazioni non le hanno mai subite e a cui basta lavarsi la faccia per tornare quelli di sempre.

Il confine è sottile, si capisce. Si possono pure avere buone intenzioni, ma l’effetto è sempre odioso. Se gli afroamericani più giovani tra loro si chiamano nigger, ha tutto un altro significato se a usare quel termine è un bianco. Qualche anno fa, dopo le lotte dei raccoglitori di pomodoro a Villa Literno contro il caporalato, Il Giornale titolò in prima pagina: “Questa volta hanno ragione i negri”. Un imperdonabile insulto razzista, magari lastricato di buone intenzioni. Gli italiani si sono ingiustamente indignati quando sulla copertina di una rivista tedesca apparve un piatto di spaghetti con una lupara e una coppola. Imitare Ghali scurendosi il volto è la stessa cosa. Non una parodia, solo un insulto a chi ancora in questi anni Venti fatica il doppio a farsi valere, solo per il colore della propria pelle.