Ci vollero cinquant’anni perché venisse riconosciuto ufficialmente il genocidio degli armeni, un milione e mezzo di morti ammazzati dall’esercito turco. Uno dei più grandi stermini della storia, secondo solo all’Olocausto degli ebrei e all’eccidio degli hazara in Afghanistan da parte di pashtun e talebani. La documentazione sulla caccia all’uomo nella parte Est dell’Anatolia è oramai copiosa anche se non mancano le difficoltà, visto che ufficialmente Ankara ancora oggi non riconosce l’eccidio e al massimo concede di parlare di un “cosiddetto genocidio”. Ma questo Quattro anni sotto la Mezzaluna, scritto in prima persona da Rafael de Nogales e pubblicato da Guerini e Associati, ha il valore della documentazione in presa diretta, sul campo, dal vivo diremmo oggi. «Non è certo la stessa cosa leggere di ingiustizie, crudeltà e massacri sui giornali, e assistervi di persona mentre accadono da ambo le parti senza poter fare nulla per evitarli, come spesso è capitato a me». Figura controversa, tra il romantico avventuriero e il mercenario, il venezuelano Rafael de Nogales che ha vissuto quasi sempre all’estero per fuggire al regime del dittatore Juan Vicente Gómez, è uno dei pochi preziosi testimoni del genocidio degli Armeni. Nelle pagine del suo libro che è diario militare di ufficiale dell’esercito Ottomano, rivive lo scenario che in quegli anni ridisegnerà l’intero Medio Oriente, dall’assedio della città di Van in Anatolia, affacciata su un meraviglioso lago, di cui riportiamo un brano nell’estratto, al tifo che flagella Gerusalemme, fino alle battaglie di Gaza. Un racconto in prima persona in cui Rafael de Nogales, cristiano e affatto sostenitore degli Armeni, ci riporta con la vivida crudezza della narrazione militare uno dei genocidi più infami della storia. Fabio Poletti Rafael de Nogales Quattro anni sotto la Mezzaluna traduzione e cura di Fabrizio Pesoli 2022 Guerini e Associati pagine 352 euro 28
Per gentile concessione dell’editore Guerini e Associati pubblichiamo un estratto dal libro Quattro anni sotto la Mezzaluna.
L’assedio rimase praticamente in stallo nelle giornate del 2 e 3 di maggio. Ciononostante il combattimento proseguì in modo aspro, così che all’imbrunire un centinaio o due di facce livide rimasero a contemplare con lo sguardo fisso il cielo stellato. Il 2 maggio, se non mi sbaglio, uno dei nostri ufficiali partì alla testa di una colonna per affrontare alcune bande di ribelli. Costoro, vedendolo avvicinarsi, fuggirono dal villaggio in cui erano asserragliati per andare a ingrossare le fila degli armeni nella gola di Varak. La mattina presto del 4 maggio il battaglione di gendarmi «Erzurum» comandato dal capitano Kâzım Efendi arrivò finalmente da Hasankale. Per fortuna giunsero con esso anche alcune riserve di granate, di cui avevamo urgente bisogno. Uno di quei giorni, non ricordo esattamente quando, il governatore ricevette una lettera dal dottor Ussher che lo rimproverava per aver scagliato numerose granate contro gli edifici della Missione a Van, nonostante fosse chiaramente evidenziata dalle bandiere americane. Il contenuto della lettera, che Cevdet Bey tradusse in francese per mia comodità, era espresso in toni alquanto severi e suscitò la sua ira al punto che, senza ascoltare i miei consigli, egli rispose minacciando di bombardare la Missione «sul serio» se i missionari nordamericani avessero continuato, come diceva, a sobillare gli armeni contro il governo e a presiedere raduni di rivoluzionari. Nel frattempo gli armeni si erano concentrati attorno al monastero Yedi Kilise in quantità tale da costituire una reale minaccia per noi, in caso di una ritirata in quella direzione. Di conseguenza il battaglione «Erzurum» ricevette ordine di sloggiarli dal loro rifugio. Gli armeni comunque non attesero che le nostre truppe compissero la propria missione ma se la diedero a gambe, abbandonando il palazzo storico e la sua impareggiabile biblioteca millenaria nelle mani dei turchi. I quali, come era lecito attendersi, la incendiarono subito! A quel punto non era rimasto neanche un curdo tra le nostre file. Al culmine della sfortuna, giunse notizia che il tenente colonnello Halil Bey era stato sconfitto a Dilman (in Persia) e che la nostra armata di spedizione stava lottando per ritirarsi a ovest verso la frontiera turca. I combattimenti in corso con alterne fortune sui diversi settori dell’assedio si fecero più vivaci al crescere del pericolo costituito dai russi. E Cevdet Bey, che aveva ormai quasi perso la speranza di prendere Van con la forza, cercava di ottenerne la resa per inedia. Con quel fine in vista, ordinò che qualsiasi donna o bambino armeno ancora disperso nei villaggi circostanti fosse ricondotto da una scorta di gendarmi alle trincee degli assediati, nell’opinione che questi ultimi li avrebbero fatti entrare nella città. Ma Cevdet si sbagliava. Mi trovavo per caso su una delle terrazze del castello e osservavo il passaggio di quella strana processione, e non potei credere ai miei occhi quando vidi che, invece di accogliere quegli sventurati, gli armeni sparavano contro di loro, ferendone alcuni e ammazzandone altri. Nel frattempo i sopravvissuti, avendo compreso cosa significavano quei colpi, si voltarono e strillando forsennatamente fuggirono in cerca di rifugio tra le nostre truppe, lasciandosi alle spalle un terreno disseminato di cadaveri. Come cristiano provai tale rabbia e disprezzo per il comportamento di questi Igoroti, pronti a sparare a mogli e figli per evitare di dividere il pane con loro, che ordinai subito ai miei uomini di aprire il fuoco per sezioni e non mi fermai finché non fu raso al suolo l’intero isolato dal quale quelle belve avevano colpito il loro stesso sangue. Questo episodio mi ricorda un altro incidente occorso durante l’assedio di Van. Dalla sommità di un edificio osservavo il cannoneggiamento con alcuni miei ufficiali, mentre un’anziana donna musulmana stava stendendo i panni su un cavo sospeso a un tetto vicino. Appena gli armeni la videro, aprirono un fuoco accanito contro quell’anziana creatura vacillante, intrigandosi tanto col nuovo bersaglio che smisero perfino di sparare a noi, fino a che la donna cadde crivellata di colpi. La ragione era chiara. A giudicare dalla severità del fuoco, li interessava assai più colpire una vecchia che uccidere la mezza dozzina di ufficiali a una distanza addirittura minore. Questo incidente, come pure molti altri simili che potrei citare, non mancò di influenzare la mia opinione sugli armeni sino ad avvelenarla in qualche modo. Ad ogni buon conto, pur detestando cordialmente alcune loro caratteristiche, provo ammirazione per molte altre. Non è certo la stessa cosa leggere di ingiustizie, crudeltà e massacri sui giornali, e assistervi di persona mentre accadono da ambo le parti senza poter fare nulla per evitarli, come spesso è capitato a me. Il 12 maggio eravamo già in possesso dei due terzi della città di Van. La parte restante, ancora sotto il controllo del nemico, era ormai un ammasso di abitazioni ed edifici in frantumi e crivellati da migliaia di granate che continuavano a bersagliarli giorno e notte. Gli armeni non si sbagliavano infatti nell’affermare che avevo lanciato sedicimila tra bombe e granate nelle prime due settimane di assedio. Per riuscire a controllare anche quell’ultima zona della città dovevamo prima conquistare il teerk noto come la lokanta, chiave d’accesso, per così dire, alle linee nemiche di difesa nel settore sud. Aiutati dal battaglione «Erzurum», che era riuscito a espugnare gli edifici limitrofi, concentrai praticamente tutto il fuoco della nostra artiglieria su quella fortezza e la spianai, piano per piano, fino a ridurla un mero cumulo di macerie. Eppure gli armeni seguitavano a combattere spiegati sul campo, sparandoci a breve distanza tra le crepe di quei muri cadenti. Nonostante tutti gli sforzi dei nostri uomini per incendiare quel mucchio di rovine che eruttava fuoco e piombo senza posa, fummo impediti dall’eroismo degli armeni i quali, notata ogni nuova fiamma, vi si lanciavano sopra con secchi d’acqua per spegnerla a costo della propria vita. Esasperato per i troppi inutili sforzi, alla fine mi lanciai personalmente all’attacco per incendiare le rovine, proprio mentre una granata a mano cadeva nella trincea che avevo appena lasciato, ferendo e uccidendo quasi tutti coloro che non avevano avuto il coraggio di seguirmi nell’assalto. In quel momento il governatore apparve sulla scena per informarmi che i nostri volontari nella gola di Kotur Dağ erano sul punto di arrendersi davanti agli attacchi sempre più impetuosi dei russi, che avanzavano con l’apparente intenzione di chiudere la ritirata della nostra armata di spedizione sconfitta a Dilman. © 2022 Edizioni Angelo Guerini e Associati srl