Marilena Delli Umuhoza
Negretta Baci razzisti
2020 Red Star Press
pagine 192 euro 16

I più «buoni» la chiamano Caffè, tutti gli altri Negretta. Duri a morire gli stereotipi dell’Italia del Terzo Millennio, davanti a chi è nato qui con il colore della pelle non dominante nel nostro Paese. Figlia di madre ruandese e padre bergamasco, Marilena Delli Umuhoza, una delle scrittrici afroitaliane più importanti della sua generazione, si mette a nudo in questo romanzo che coniuga narrazione e memoire. Il tono a volte è volutamente leggero. Razzisti e sessisti si combattono meglio e più a fondo con l’arma dell’ironia e il sarcasmo. Ed è proprio a loro che andrebbe dedicato questo libro che si legge tutto d’un fiato, piccoli paragrafi che sono autentiche gemme. Ma pure lo strumento efficace per scardinare le convinzioni di chi, ancora oggi, si stupisce che quella ragazzina dalla pelle scura sia nata qui e per forza parli perfettamente italiano o creda che sua madre, solo perché nata in Africa, debba per forza mantenersi facendo le pulizie o vendendo il proprio corpo. Fabio Poletti

Per gentile concessione dell’autrice Marilena Umuhoza e dell’editore Red Star Press pubblichiamo un estratto del libro Negretta Baci razzisti.

Eroi pronti a morire per il nostro paese

Quando i miei concittadini mi dicono «perché non te ne torni a casa tua?», è evidente che non gli sia mai passato per la mente che mi trovi esattamente nell’unico paese che abbia mai conosciuto: l’Italia. Il posto in cui sono nata e cresciuta. Il posto da cui ho fatto ingresso in questo mondo e in cui intendo vivere ognuno dei miei giorni fino alla fine.
Non c’è altro posto sulla terra in cui vorrei essere. L’Italia è casa mia.
Quando testimonio le dure prove che i molti immigrati affrontano per raggiungere le nostre spiagge, sospesi tra la vita e la morte, credo fortemente che invece di ricevere una punizione dovrebbe essere garantita loro la cittadinanza. Non sono criminali, ma individui così attaccati al nostro paese da aver rischiato la vita per la benché minima possibilità di viverci.
La loro devozione è radicata così a fondo che non può competere con la casualità di un luogo di nascita. Perché sono quegli stessi “stranieri” ad aver scelto questa nazione a ogni costo – a costo della loro stessa esistenza.
C’è forse un test sulla cittadinanza migliore di questo?

PROLOGO
Mia madre voleva chiamarmi Maria Elena, come la regina d’Austria.
Quando mio padre andò a registrarmi al comune, non riuscì a ricordare con esattezza il nome tanto desiderato dalla moglie. Lui e gli impiegati optarono quindi per Marilena, riducendo i due nomi a uno solo.
Come se non bastasse, lo staff del comune non accettò di registrare anche il nome rwandese scelto per me da mia madre: Umuhoza, “consolatrice”. Si rifiutarono, sostenendo che quel nome non avrebbe fatto altro che rivestire il bambino di ridicolo, un po’ come se avessero voluto chiamarmi Hitler o Rompiballe.
Più di trent’anni dopo fui io ad andare in città per documentare la nascita di mia figlia. Era passato tanto tempo, eppure il nome rwandese scelto per lei fu rifiutato di nuovo.

LA CASTA DEI BISCOTTI
La odiavo.
Lei, che mi aveva passato quel colore. Avevo imparato a conviverci, ma ogni volta che me ne dimenticavo c’erano i poster della Lega a ricordarmelo. Quei poster di merda più i miei ventisette compagni di prima elementare.
Strizzata nel cucinotto 2×2, mamma dava amorevolmente forma a ogni biscotto con la stessa dedizione di uno scultore dell’Accademia Carrara.
Chili di noccioline sbucciate, due cucchiai di miele e una teglia ben oliata erano tutto l’occorrente. Dal settimo piano di Athena 3, venti metri sopra la porta d’ingresso con la scritta «IMMIGRATI MERDA» e i graffiti «VENDO DROGA», il profumo di dolci si spanse per l’intero vicinato.
Più tardi, alla festa della scuola, la tavola del rinfresco fu imbandita con delizie bergamasche di ogni sorta: spongada dè Solt, sfogliatine di lago, polentine, tegoline. L’unico vassoio straniero era il mio: un monte Karisimbi di biscotti, cinque volte più grande degli altri piatti. E ancora fumante, come il vulcano rwandese. Mamma si era alzata alle quattro del mattino perché tutto arrivasse caldo e croccante.
«Vedrai. I nostri biscotti speciali conquisteranno anche il bambino più ostile. Te lo prometto».
Quando alla fine della giornata squillò la campanella, i miei compagni ritirarono i loro vassoi completamente vuoti. E io ritirai la mia montagna, intoccata.
Caricai i miei speciali non più speciali biscottini sul pulmino e non osai provare a offrirne nessuno agli altri bimbi. La risposta la sapevo già. Infatti, arrivò senza nemmeno pronunciare parola: «Negretta!».

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