Sorvegliare e punire. Come le moderne tecnologie sul controllo si ispirano ai metodi di sorveglianza degli schiavi. Privacy è parola assai di moda. Ma nella società del controllo, dove ad ogni angolo delle nostre città, davanti ad ogni vetrina o portone spunta una telecamera, vien difficile pensare di essere anonimi e protetti. E non è un caso se il Panopticon di Jeremy Bentham, ideato a fine Settecento come moderno sistema di controllo, con una torre centrale con un sorvegliante e un sistema a raggera dove stanno i sorvegliati, sia stato indifferentemente adottato nei secoli dal sistema penitenziario, il carcere milanese di San Vittore ha sei raggi, e dalle più moderne strutture aziendali, che dietro all’idea dell’open space dove la condivisione delle informazioni si fa più facile, non fanno altro che adottare un modello di sorveglianza su cui il filosofo Michel Foucault ha steso fiumi di inchiostro. Una critica altrettanto argomentata arriva pure da Simone Browne, in questo Materie oscure Dark Matters, meritevolmente pubblicato dalla casa editrice Meltemi.Simone Browne si occupa di diaspora nera, media digitali e sorveglianza presso il Dipartimento di Studi Africani e della Diaspora Africana dell’Università del Texas, dove insegna Black Studies. Fa parte del collettivo cyber-femminista “Deep Lab” ed è direttrice di ricerca del “Critical Surveillance Inquiry”, un gruppo di lavoro che prende in esame le implicazioni sociali ed etiche delle tecnologie di sorveglianza, con particolare attenzione agli algoritmi e all’equità tecnologica, per comprendere meglio lo sviluppo e l’impatto dell’Intelligenza Artificiale.Materie oscure/Dark Matters è il suo primo libro, più volte premiato per lo sguardo con il quale esamina e mette in relazione la sorveglianza digitale, la schiavitù transatlantica e le tecnologie biometriche. In Materie oscure Dark Matters Simone Browne traccia una genealogia delle tecnologie e delle pratiche di sorveglianza contemporanee, mostrando come queste derivino da una lunga storia di discriminazioni razziali perpetuate dagli oppressori bianchi per controllare la vita e il corpo delle persone nere schiavizzate.Le fonti prese in esame sono molteplici: dal progetto della nave negriera Brookes al Panopticon di Jeremy Bentham, fino alla biometria e ai bias algoritmici delle piattaforme digitali. L’analisi che ne risulta mette in relazione gli studi sulla sorveglianza con i documenti presenti negli archivi della tratta atlantica degli schiavi, strutturandosi grazie alle voci critiche del femminismo nero, della sociologia e dei Cultural Studies.La sorveglianza è una pratica discorsiva e materiale – sostiene Simone Browne – che reifica i margini, i confini e i corpi lungo le linee della razza. La sorveglianza della nerezza è stata e continua a essere una norma sociale e politica da contrastare. Fabio Poletti
Simone Browne
Materie oscure Dark matters Sulla sorveglianza della nerezza traduzione a cura di Ippolita 2023 Meltemi pagine 268 euro 20
Per gentile concessione dell’autrice Simone Browne e dell’editore Meltemi pubblichiamo un estratto dal libro Materie oscure Dark matters
Paul Gilroy osserva che laddove in precedenza l’idea di razza veniva prodotta come una serie di caratteristiche anatomiche, e dunque si credeva che una sorta di verità certa e necessaria fosse scritta sul corpo, oggi, le tecniche di osservazione e micro-osservazione che fanno parte del regime di descrizione del corpo tramite ciò che si vede (ad esempio la genomica, le ecografie, le tecniche di neuroimaging, la tomografia computerizzata) stanno mettendo a nudo, a livelli sempre più intimi, ciò che prima non era visibile. La produzione del discorso razziale altamente mediata attraverso il metodo scientifico è stata ulteriormente incrementata da tecnologie che hanno come obiettivo osservare ogni particolare infinitesimale. La costruzione del discorso razziale mediata dal metodo scientifico si basava sulle produzioni culturali, sulle rappresentazioni, sul mito e sul progetto coloniale, le cui intenzioni erano “far sì che il corpo muto rivelasse la verità della sua identità razziale”. Gilroy suggerisce che “le pratiche di osservazione che sono state associate al consolidamento dell’odierna nano-scienza potrebbero anche facilitare lo sviluppo di un umanesimo inequivocabilmente postrazziale”. Il mio intervento qui non intende negare questa svolta potenzialmente progressista che Gilroy ci segnala, ma vuole sostenere che, a differenza dei progressi tecnologici, ad esempio, in tecniche come l’ecografia o in altre tecnologie di imaging corporeo, in alcune tecnologie dell’informazione biometrica e nelle relative “pratiche di osservazione” questo umanesimo potenzialmente postrazziale viene ignorato e soppresso. E invece, proprio con la biometria sono i momenti di osservazione, di calibrazione e della sua applicazione a rivelarsi talvolta come razzializzanti. Se, come suggerisce Gilroy, l’impresa pseudoscientifica della ricerca della verità nella differenza razziale può essere pienamente compresa attraverso il concetto fanoniano di epidermizzazione, come può questo concetto essere impiegato quando il corpo è ridotto dalla biometria? Suggerisco di pensare al concetto di epidermizzazione digitale se consideriamo ciò che accade quando alcuni corpi sono convertiti in codice digitalizzato, o almeno quando si tenta di rappresentarli in questo modo. Con codice digitalizzato mi riferisco alle possibilità di identificazione che si dice vengano offerte da alcune tecnologie informatiche biometriche, dove gli algoritmi sono i mezzi computazionali attraverso i quali il corpo, o più specificamente parti, pezzi e, sempre più spesso, performance del corpo sono matematicamente codificati come dati, creando modelli unici che i computer possono poi ordinare affidandosi a un database di ricerca (identificazione online o uno-a-molti/ identificazione 1:N/ rispondendo alle domande: Chi sei? Sei iscritto in questo database?), o per verificare l’identità del portatore del documento all’interno del quale è codificato il valore biometrico unico (verifica offline o uno-a-uno/ 1:1/ rispondendo alla domanda: Sei chi dici di essere?). Le tecnologie biometriche più diffuse includono il riconoscimento facciale, le scansioni dell’iride e della retina, la geometria della mano, i modelli delle impronte digitali, i modelli vascolari, l’andatura e altri riconoscimenti cinestetici e, sempre più spesso, il DNA. La tecnologia biometrica viene utilizzata anche per l’automazione (automazione one-to-no- ne/ 1:0/ risposta alla domanda: c’è qualcuno?), ad esempio con le webcam dei computer che utilizzano software di tracciamento del movimento o con rubinetti, toilette e asciugamani touchless che utilizzano i sensori a infrarossi o capacitivi per rilevare la presenza e i movimenti dell’utente. Nel caso di queste tecnologie, l’uso della biometria non è finalizzato al riconoscimento o alla verifica dell’identità dell’utente, ma piuttosto al riconoscimento della sua presenza o alla consapevolezza che qualcuno, o almeno una parte di qualcuno, è lì, in un modo o nell’altro. La biometria è una tecnologia di misurazione del corpo vivente. L’applicazione di questa tecnologia è nelle pratiche di verifica, identificazione e automazione che consentono al corpo di funzionare come prova. Le identità, in queste pratiche di digitalizzazione, devono essere pensate anche attraverso la loro costruzione all’interno dei discorsi, intesi, seguendo Hall, come “prodotti in specifici siti storici e istituzionali all’interno di specifiche formazioni e pratiche discorsive, attraverso specifiche strategie enunciative ”La nozione di corpo reso fuori luogo, o reso ontologicamente insicuro, è utile quando si pensa ai momenti di contatto con le sedi istituzionali, ad esempio nell’attraversamento delle frontiere internazionali e negli spazi di frontiera interni allo Stato, come la cabina elettorale, l’ufficio di assistenza sociale, la prigione e altri luoghi o situazioni in cui l’identificazione, e sempre più spesso le informazioni biometriche, sono richieste per dire la verità di e per i corpi muti. Questi luoghi e situazioni producono, e spesso necessitano, un’insicurezza ontologica, per la quale “tutt’intorno al corpo regna un’atmosfera di indubbia incertezza”. Questa atmosfera di indubbia incertezza fa parte di ciò che Lewis Gordon definisce “la problematica della soggettività negata”. A questo proposito, vale la pena citare Gordon in dettaglio: L’intuizione di Fanon, condivisa da DuBois, è che non c’è nessuna soggettività interiore laddove non c’è l’essere, laddove non c’è nessuno, e laddove non c’è un legame con un’altra soggettività in qualità di protetto, guardiano o proprietario, allora tutto è permesso. Poiché di fatto c’è un Altro essere umano nella relazione negata, come dimostra ad esempio il razzismo anti- nero, ciò significa che c’è una soggettività che sta esperendo un mondo in cui, contro di lei, tutto è permesso © 2023 Meltemi press srl