L’imminente crollo dell’Unione Sovietica fece accendere la miccia dei conflitti sociali, spesso degenerati in conflitti etnici. Ma quello che successe a Sumgait, nella repubblica sovietica dell’Azerbaijan
è l’orrore infinito che ha pochi precedenti nella Storia: il genocidio degli armeni del 1915 in Turchia, il rastrellamento dei ghetti da parte delle SS naziste. Samuel Shahmuradian, in questo La tragedia di Sumgait, pubblicato da Guerini e Associati, ha lavorato su documenti ufficiali e soprattutto ascoltato la testimonianza diretta dei sopravvissuti. Ne emerge un quadro di feroce persecuzione perpetrato da duemila giovanissimi azeri protagonisti di una caccia all’uomo nei quartieri armeni, culminata in stupri omicidi e violenze di ogni tipo anche sui bambini. I morti riconosciuti ufficialmente furono trentadue, secondo fonti armene millecinquecento. La cronaca è quella di un massacro. Una folla fanatizzata attraverso un’opera di disinformazione, distribuzione di alcool e armi bianche, e persone inermi massacrate dai propri vicini con i quali, fino al giorno prima, avevano convissuto in modo pacifico. Le testimonianze tragiche dei sopravvissuti sono un drammatico appello alla responsabilità individuale e pubblica e restituiscono una traccia delle motivazioni e dei meccanismi con cui un uomo può essere spinto contro un altro uomo nella maniera più brutale. Tuttavia i Giusti al tempo del male ci sono stati anche a Sumgait, ed è in nome della verità dei fatti che sorge l’imperativo di valorizzare quegli episodi nei quali azeri vicini di casa, compagni di scuola, colleghi di lavoro, hanno saputo dire «no». Di fronte alla violenza devastante che si abbatteva sugli innocenti, hanno reagito, si sono opposti, non hanno voltato le spalle, come la madre azera che ha salvato un’intera famiglia e con il suo esempio ha evitato al figlio di commettere l’indomani gli stessi crimini. Fabio Poletti
Samuel Shahmuradian
La tragedia di Sumgait
1988 Un pogrom di armeni nell’Unione Sovietica
2013 Guerini e Associati
pagine 208 euro 18,50
Per gentile concessione dell’autore Samuel Shahmuradian e dell’editore Guerini e Associati pubblichiamo un estratto dal libro La tragedia di Sumgait
IRINA: La gente gridava: «Sappiamo che siete in casa. Aprite!». Indossavano tutti degli abiti scuri. Forse era un’uniforme? Quando hanno cominciato a sfondare la porta mio cognato ha detto: «Andate sul balcone». Mia sorella Karina ha detto a suo marito Igor: «Diciamoci addio». Lui le ha risposto: «Che cosa dici? Vai sul balcone». Ha anche sorriso. Mio marito Edik era paralizzato. Ha guardato me e i bambini. Avevamo il presentimento che quelle fossero le nostre ultime parole, i nostri ultimi minuti.
Karina e i suoi bambini, io e due altre ragazze siamo andate sul balcone. Abitiamo al primo piano. Nella strada non c’era gen- te, solamente dei passanti. Ci siamo messe a gridare: «Aiuto! Ci ammazzano!». Gli azeri non reagivano. Una donna russa ha alzato la testa e ha chiesto: «Che cosa posso fare?». Le ho detto: «Telefonate! Chiamate qualcuno». Non so se lei l’ha fatto.
KARINA: Io ho gridato: «Butto giù i bambini. Prendeteli e portateli da qualche parte perché non li ammazzino». Le persone guardavano come se stessero assistendo a uno spettacolo.
IRINA: Volevamo passare sul balcone della vicina. Mia cognata Jasmina è riuscita per prima. Volevo seguirla ma non ci sono riuscita. Ho preso il mio bambino e mi sono appoggiata contro il muro, ma il bambino ha rischiato di cadere perché la sua maglia si è impigliata e io mi sono girata indietro. Karina mi ha detto: «Se non riesci a passare tu io non lo potrò mai, perché sono incinta di sette mesi». In quel momento è venuta mia cognata Irina. Ha preso il bambino e l’ha portato sul balcone vicino. Poi è tornata indietro per aiutare gli uomini. Aveva in mano un coltello. Sette persone sono rimaste nell’appartamento. Mio suocero aveva una scure.
La porta del balcone che dava sulla sala della vicina azera era chiusa. Noi abbiamo bussato. Lei si è avvicinata e ha agitato la mano per farci capire che non ci avrebbe lasciato entrare. Noi l’abbiamo minacciata di rompere il vetro. Allora ha aperto. Ha cominciato a gridare per cacciarci. Anche i suoi due figli di quattordici anni si sono messi a urlare: «Uscite altrimenti vi uccidiamo noi stessi!». Abbiamo domandato se potevano dare rifugio almeno ai bambini promettendo che ce ne saremmo andate. Si sono rifiutati e hanno cacciato Karina e i suoi bambini. Io mi sono nascosta in un angolo. Mi hanno trovata e mi hanno buttata fuori con mia figlia.
KARINA: Non sapevo che cosa fare. Stavano uccidendo i nostri e io mi trovavo con due bambini sulla scala vicina alla nostra. Al secondo piano qualcuno ha aperto. Ho chiesto di entrare. Mi ha risposto: «No!». Categoricamente. Sono salita al quarto piano. Ho bussato a una porta. Un uomo mi ha aperto. Ero pronta a mettermi in ginocchio davanti a lui. Era un caucasico. Mi ha la- sciato entrare.
IRINA: Ogni volta che bussavo a una porta mi rispondevano: «No! Vattene!». Eravamo l’unica famiglia armena del caseggiato. Sono salita al quarto piano. Un uomo mi ha aperto e mi ha portato nel bagno dove ho trovato Karina e i suoi bambini. L’uomo ha chiuso la porta perché non andassimo sul balcone. La vasca da bagno era piena d’acqua. L’ho vuotata e mi sono seduta sul fondo per calmare mia figlia che non smetteva di piangere.
Dal cortile venivano delle grida. Era un vero incubo. Abbiamo sentito Ira urlare: «Oh! Mamma!». Poi abbiamo saputo che l’avevano bruciata viva, nuda. Forse hanno finito sua madre sotto i suoi occhi. Più tardi un russo che abita nel caseggiato vicino ci ha raccontato come sono morti i nostri. Hanno spogliato mia suocera, di cinquantadue anni, e l’hanno picchiata selvaggiamente all’entrata del caseggiato. Anche dei bambini di dodici e tredici anni l’hanno picchiata a colpi di bastone. Poi l’hanno gettata in cantina. Mio marito Edik è stato picchiato a colpi di bastone e di pala. Poi l’hanno bruciato al punto che non era più riconoscibile. Abbiamo potuto identificarlo unicamente grazie a pezzi dei suoi pantaloni e alle sue scarpe. Ira è stata bruciata viva, completamente nuda. Il russo ci ha detto: «L’hanno spogliata, le hanno versato addosso benzina e hanno appiccato il fuoco. Igor, il marito di Karina, era steso a terra morto nel cortile, coperto di ferite, le gambe metà ridotte in cenere e il viso cosparso di bruciature di sigarette. Hanno trascinato lo zio Misha Ambartsumian, che si trovava quel giorno a casa, lungo la strada dove gli tiravano delle pietre. Lui si è seduto e si è messo la testa fra le mani. Uno di loro aveva una pala appuntita e con quella gli ha spaccato la testa. Poi l’hanno bruciato».
Quando è tornato il silenzio, verso le ventuno, il caucasico ha aperto la porta del bagno e ci ha condotto nella stanza dove si trovavano sua moglie e i suoi tre bambini. Ha detto a uno dei suoi figli: «Non dire mai a nessuno che abbiamo nascosto degli armeni». Dopo un lungo silenzio gli abbiamo chiesto di parlare. Ma lui ha risposto: «Non vi posso dire niente. È spaventoso». E poi ha aggiunto: «Ho paura di tenervi qui a casa mia fino al mattino e che i vicini vi vedano e mi denuncino. Se potete adesso andate». Karina ha proposto di andare a casa di suo fratello che abita in un altro quartiere della città e che ha come vicini dei buoni amici russi. Lei se ne è andata e io sono rimasta con i bambini.
Circa un’ora e mezzo dopo è arrivato un veicolo. Il caucasico è andato sul balcone e ha detto: «È per te». Ma io avevo paura e temevo fossero ancora i banditi. Sono andata alla finestra e ho visto mia cognata scendere con dei militari. Sono uscita con i bambini, ma le mie gambe vacillavano al punto che al terzo piano ho dovuto sedermi. Dieci soldati armati sono saliti per le scale. Hanno preso i bambini e mi hanno aiutata a camminare. Uno di loro mi ha detto: «Hai tanto sofferto, ma adesso è finita. Esci, vai direttamente sul camion e non guardarti attorno». Ma io non ho potuto impedirmi di guardare il mio balcone: le finestre erano spaccate e brandelli di vestiti pendevano dappertutto. Vicino al caseggiato qualcosa bruciava. Ho pensato fossero dei mobili che finivano di consumarsi. Non sapevo che erano Ira e mio marito… Era freddo, cadeva una pioggia sottile. I soldati mi hanno detto: «Ti avevamo detto di non guardare». Poi siamo partiti in direzione dell’ufficio del Comitato di Partito.
© 2012 Edizioni Angelo Guerini e Associati
Dall’originale La tragédie de Soumgaït. Un pogrom d’Arméniens en Union Soviétique
© November 1991, Éditions du Seuil
English edition © 1990 by Samuel Shahmuradian and Zoryan Institute