Tommy Kuti è un punto di riferimento per le nuove generazioni di italiani di origine straniera da quando nel 2017 è uscito il suo singolo #Afroitaliano («Il termine più democristiano per dire quello che volevo»). Nato in Nigeria, cresciuto in periferia tra le province di Brescia e Mantova dall’età di due anni, laureato a Cambridge in Scienze della Comunicazione, è un rapper che oltre ad avere un grande seguito sui social, ha conquistato Fabri Fibra e il secondo posto dell’edizione 2018 di Pechino Express.

A inizio anno ha creato il supergruppo Equipe 54, nato con l’intento di raccontare una nuova generazione attraverso l’arte: il 19 giugno uscirà il loro nuovo singolo. «Ho riunito un po’ di talenti rap presenti in Italia perché ero stufo di essere l’unico ragazzo nero all’interno della musica che conta. Ognuno di noi ha un bel rapporto con le proprie origini africane, Roy Raheem con la Nigeria come me, F.U.L.A. e Yank con il Senegal e Slim Gong con la Mauritania». Qualche giorno prima, il 15 giugno, Kuti ha preso la parola con Beppe Sala all’inaugurazione del programma estivo della Triennale di Milano, in un confronto che si è chiuso con l’impegno di un incontro per approfondire il tema delle seconde generazioni:

Ho colto l’occasione per dire due cose al sindaco, spiegando il razzismo dal nostro punto di vista.

Black Lives Matter

Quella contro la discriminazione razziale è una sua battaglia da sempre, ma le proteste del movimento Black Lives Matter, in piena deflagrazione nelle piazze di tutto il mondo, stanno amplificando la sua voce e quella di tanti afrodiscendenti. Nelle scorse settimane le dimostrazioni si sono riversate anche nelle strade italiane, in un clima totalmente pacifico, come a Milano, dove Kuti era in prima linea con altri artisti come F.U.L.A. e David Blank e ce ne parla con soddisfazione: «C’è stata una grandissima partecipazione, sono proprio contento che tanti ragazzi abbiano deciso di scendere in piazza, questa cosa mi ha colpito ed emozionato. In Italia ci sono problemi chiaramente diversi da quelli degli Stati Uniti ma non meno importanti».

#prendiamolaparola

Per raccogliere e diffondere testimonianze sulle questioni razziali in Italia, Tommy Kuti ha lanciato sui social l’hashtag #prendiamolaparola, che sta avendo un grande successo: «In tanti hanno tirato fuori il coraggio di dire la propria. Mi sembra di avere aperto un vaso di Pandora perché un bel po’ di persone che sono rimaste in silenzio finora hanno iniziato a parlare. Ognuno si è mobilitato per dare voce a ciò che accade nel proprio settore. Un’insegnante, per esempio, ha parlato di episodi di discriminazione verso gli alunni nelle scuole primarie, dove capita spesso che si formino classi ghetto». La situazione nelle scuole italiane è un argomento che aveva già affrontato nel suo libro del 2019 edito da Rizzoli, Ci rido sopra. Crescere con la pelle nera nell’Italia di Salvini, quando aveva fatto emergere la presenza di un atteggiamento discriminatorio da parte degli insegnanti sulla base del background sociale degli studenti. «Penso che le coscienze di molti ragazzi di seconda generazione si siano svegliate. C’è gente che è italiana e non ha la cittadinanza, c’è gente che non ha la possibilità di esercitare il proprio lavoro, c’è gente che ha tutte le strade sbarrate, c’è gente che semplicemente non ha la possibilità di sentirsi parte del Paese in cui è cresciuta. Questa lotta è la mia priorità».

Da che parte sta l’industria musicale

Le polemiche stanno investendo anche il mondo dell’industria musicale, settore che ha un debito altissimo nei confronti della musica black e degli artisti neri e non ne riconosce i meriti quanto dovrebbe. Basti pensare ai generi blues, jazz, soul, rap, reggae, praticamente tutta la storia della musica del secolo scorso. Dopo aver commentato criticamente un post della Universal Music, etichetta con la quale è stato sotto contratto fino a due anni fa, Kuti ha ricevuto il supporto di tanti nuovi italiani. «Credo che una major musicale abbia davvero gli strumenti per combattere il razzismo. In Italia c’è questo enorme problema della rappresentazione, perché quando si fa riferimento a una persona nera si pensa subito a sbarchi e clandestini, al cliché dei neri ignoranti che sono criminali o bisognosi di aiuto

Personalmente, mi chiamano spesso per recitare ruoli come clochard o spacciatore. Se andiamo a cercare tra gli artisti delle major discografiche, sicuramente ne troviamo di origine straniera, ma nessuno è nero come me. Questo è un problema di colorismo.