Ortensia Visconti
Malalai
(Rizzoli, 2020)
pagine 352 euro 19

Malalai è un personaggio immaginario ma come succede spesso nella realtà è scappata da un’Afghanistan che non riconosce più. Così diverso da quello che abitava sua madre che non ha mai conosciuto, una donna moderna e coraggiosa alla quale si ispira anche nei momenti bui. L’Afghanistan da cui scappa oggi è quello di uomini vestiti di nero come corvi, un pugno nello stomaco per chi come lei ha ancora davanti agli occhi il colore dei fiori, il profumo delle spezie, lo struggimento di amore per Faisal oramai lontano. Il viaggio sul barcone è un’odissea. Una migrante che partorisce, una nuova vita in arrivo, forse già una premonizione. A Roma, una Roma mai stereotipata, Malalai scoprirà che vivere è possibile anche senza subire angherie. Ma il suo cuore, se non la sua mente, torneranno spesso ai colori dei fiori e al profumo delle spezie del suo Afghanistan. E alla fine alle sue radici, come racconta l’autrice del romanzo Ortensia Visconti, una giornalista che ha lavorato spesso in Afghanistan come corrispondente di guerra per vari giornali. Fabio Poletti

Per gentile concessione dell’autrice Ortensia Visconti e dell’editore Rizzoli pubblichiamo un estratto del libro Malalai.

Tilo mi ha lasciato alla stazione di Napoli, sul binario per Roma. Mi ha dato dei soldi. Si è raccomandato di non mostrare cenni d’insicurezza, anche quando non so cosa fare.
«I sicuri di sé» ha detto «a volte sono stupidi, o bugiardi, ma oggigiorno arrivano lontano. E non li ferma la polizia.»
Non capisco da dove le italiane tirino fuori la loro sicurezza, ma mi piace questo atteggiamento spavaldo verso la vita. Faccio finta di essere una di loro. Cerco di non fissare una signora non più giovane e molto truccata seduta su un sedile di fronte al mio; ha i pantaloncini uguali a quelli delle gemelle.
Prendo un pochino da tutti, troppo da nessuno. Tremo di fronte al controllore, credendolo un poliziotto. Trattengo un conato di vomito quando la mia vicina scartoccia un panino ro­tondo imbottito con un ricciolo di carne, il cui odore mi rivolta lo stomaco. Osservo discretamente i miei compagni di viaggio mentre parlano al telefono, oppure ci giocano come bambini, ci ascoltano la musica o lo usano per gli autoritratti.
È sorprendente quanto sono distratti, perché nessuno mi guarda veramente. Nessuno sa chi sono. In Afghanistan è im­pensabile tanta incoscienza.
Guardo Napoli con il naso incollato al vetro, chiedendomi cos’abbia per ricordarmi Kabul, perché mi sembra tutta grigia; e mancano bambini, animali, orizzonti. Più spazio metto tra me e la mia terra, più lei mi rincorre. Mi convinco che è nostalgia, minimizzando uno stato d’animo che mi allontana a grandi passi dal regno dei sicuri di sé, e che mi accompagnerà attraverso la Campania e il Lazio, stando alla mappa appesa davanti al bagno.
Osservando il paesaggio ripenso ad Ali Abad e Sher Darwaza, alle cime innevate che proteggono la mia città come diamanti su una corona che splende sotto il sole, nell’aria tersa del mattino; ripenso alle case di fango sui versanti che celano la vita sotto un’apparenza placida e monocroma, fino alla miseria sguaiata del cuore urbano di Kabul; ripenso alle nuvole di polvere che col vento l’attraversano, velando anche la sua bellezza con quel burqa che ritorna sempre. Mi sorprende che un luogo possa diventare tanto indispensabile.
Lascio cadere le lacrime discretamente. La signora truccata mi guarda comprensiva. Da voi è per amore che piangono le ragazzine, giusto?
Alla fine dell’estate del bacio mancato, quella in cui ha cominciato a sfuggirmi lasciando appassire i suoi fiori, rividi Faisal.
Lo incontrai vicino al fiume, nello stesso punto in cui da piccola mi aveva aiutato a guadarlo, tirandomi un’estremità del suo lungi. Pescava le trote. Ci scrutammo, e non sentimmo il bisogno di parlare. Il trucco per non farlo scappare, per tratte­nerlo, era fissarlo e rimanere immobile, sulla sponda del fiume nero. Fino a quando lo guardavo, lui guardava me.
Notai subito che un velo di barba gli scuriva le guance, che ricordavo lisce come le mie. E il suo portamento, l’ampiezza del
torace, le gambe forti e arcuate da cavaliere, i gesti sicuri con cui maneggiava la canna da pesca, tutto in lui in un paio di mesi si era trasformato, rendendolo simile a un uomo.
Gli occhi avevano la stessa intensità di sempre. Ma sono sta­ti quegli occhi a tradirlo. Perché erano inaspettatamente poco fermi, ed erano pieni di sfida. Il suo sguardo diceva che do­potutto era un dipendente della mia famiglia e che non ce l’a­vrebbe fatta a combattere la tradizione, le consuetudini sociali, per sposarmi. Per me era una scoperta sorprendente, anche se ancora non avevo mai pensato all’eventualità di sposarlo. Non ne avevo avuto il tempo.
Però avevo sempre interpretato i suoi gesti sicuri, il suo modo di fare, l’intensità dei suoi occhi e la sua fierezza come le caratteristiche di qualcuno che crede in se stesso. Invece quel­ lo sguardo parlava del naufragio della nostra amicizia, di una sconfitta.
Quello che ancora non sapevo era che sarebbe stato l’ultimo sguardo sincero che mi avrebbe rivolto. Presto sarebbe diven­tato un estraneo. Il Faisal della mia infanzia era già legato al passato, e la mia presenza su questo treno è la conseguenza del suo totale disfacimento.
Entrando a Roma scorgo mura antiche come i Buddha del Bamiyan, tra le automobili che circolano intorno. Poi le rotaie si moltiplicano fino a formare un’ampia via di linee parallele. Mi domando dove scenderemo quando si aprono a ventaglio, affiancandosi ognuna al suo marciapiede di cemento. Ci poso il piede, nella ballerina che Tilo mi ha comprato sul molo di Posillipo, e seguo la gente fuori dalla stazione.
La signora col panino rotondo mi ha consigliato di chiedere di piazza di Spagna. Al secondo incrocio mi fermo davanti a
una fontana immensa. Incredula, fisso le quattro statue di don­ne avvinghiate a cigni, cavalli e mostri marini. Offrono corpi nudi, bagnati e aperti come fiori. Al centro un uomo tiene saldo un drago, che sputa l’acqua intorno.
D’un tratto Kabul mi sembra ancora più lontana, un altro universo; o lo stesso universo elaborato da gente differente. Ispirata dalla bellezza di queste statue che abbracciano esseri squamosi e misteriosi, penso al capodoglio di Moby Dick, cer­cando di convincermi che la mia sopravvivenza sia possibile in una sintesi di questi mondi apparentemente opposti.
«Queste so’ le Naiadi, ninfe dell’acqua. C’hanno fatto pure ’na poesia.»
Sussulto, sorpresa di sentire una voce tanto vicina al mio orecchio. La vecchia del treno, quella truccata con i pantalon­cini corti, sorride tutta contenta e senza un dente. Mi chiedo se mi stava seguendo. La pelle delle sue gambette fa le pieghe tra le cosce e sopra le ginocchia tonde. Ha occhi balordi, astuti. Ma il suo abbigliamento ora mi sembra meno sconveniente. Il mio era un pregiudizio. La sfrontatezza delle italiane si sovrappone alle pose di queste statue antiche, opponendole alle donne di Kabul, protette dalla purdah.*
«Vie’ co’ me, te indico la strada.»
Seguo la signora, titubante. Su una targa di pietra leggo: via Nazionale, poi svoltiamo in un vicolo adombrato dai palazzi alti, che odora d’urina, immondizia e gatti famelici. La mia incertezza è rivelata dal silenzio, che lei non lascia in pace un attimo: «So’ stata a Napoli dalle mie nipoti. C’avranno la tua età. Quindici, sedici? Uguali a te so’, meno belle ma uguali. E piangono, come te».
Ci fermiamo davanti a un portone sgangherato con sopra un’insegna, un tempo illuminata. La m è sprofondata nel pan­nello di plastica, su cui si legge: pensione Maria.
Dico: «Via Margutta».
«Sì, sì. Te riposi un po’, fai ’na doccia e te ce porto io, tutta bella pulita.»
Mi tira la camicia. Guardo le unghie smaltate di rosso ar­tigliate sul cotone a righe blu, incapace di reagire. Non sono abituata a mancare di rispetto a una donna anziana. E poi sono un’intrusa: dove mi trovo non fa differenza.
Dietro il banco c’è un portiere indiano con un completo mar­rone scolorito ai bordi e sulle maniche. Sulla destra, una porta aperta su un salone. Le tende chiuse filtrano la luce, dandole il colore del tramonto. La moquette bordeaux e i divani di velluto scuro creano un’atmosfera accogliente e dimessa, illuminata dai bagliori di una grande tv e da ghirlande di lucine colorate che si accendono a intermittenza.
Alcune ragazze nere cantano davanti allo schermo, altre, in minigonne di strass, tirano freccette a un bersaglio sorseggian­do bibite dalle lattine. Ce n’è una in mutande con un sedere che sembra un mappamondo; alza le braccia, stirandosi verso l’alto e comincia a muoverlo a un ritmo frenetico. Guardando quella massa di carne che vibra senza nessun controllo, provo una sensazione d’insicurezza e di pericolo.
Mi sento prigioniera, chiusa in un mondo che potrebbe ve­nire annientato da un momento all’altro. Mi sembra che la pen­sione Maria possa essere scossa dai bombardamenti e vacillare come il sedere della ragazza nera.
«Questo è Majid» dice la vecchia, indicando l’indiano. «È arrivato da tre anni e non dice ’na parola. Mòve solo la testa, come ’n cane da cruscotto.»
Gli occhi di Majid si fissano sui miei e sembrano schizzargli fuori dalle orbite. Le sue labbra formano la parola: “Bagho!”, senza emettere nessun suono.
Strattono la manica che la vecchia tiene stretta tra le dita. Lei non perde la presa e mi si aggrappa al collo. Sento il suo odore rancido nell’incavo della clavicola e il suo corpo ossuto pressato contro il mio. Allora la sensazione di pericolo si trasforma in una forza intensa, impossibile da reprimere. Poso le mani sul suo petto e la spingo lontano da me.
La vecchia cade per terra, ammutolita dalla sorpresa. La vi­talità dei suoi occhietti, sotto le palpebre ombrate di turchese cangiante, si è trasformata in una cattiveria selvaggia.
Carica di adrenalina, scappo inseguita dalle sue urla stridule: «Pijala! Pijala, Majid!».
Corro per le strade di una città sconosciuta, così spaventata che mi accorgo appena di quello che mi circonda. Intorno a me tutto diventa ancora più confuso; i suoni si attutiscono, avvol­gendo le immagini come naan soffici e caldi. Allora la città mi rivela dettagli familiari, angoli che svegliano ricordi, cui seguo­no pensieri. La fontana delle Naiadi, una strada, un incrocio, una discesa, una scalinata.
Vedo lo sterco fumante di un cavallo che tira una carrozza, la luce ambrata che accende le facciate dei palazzi del colore della terracotta colandoci sopra come caramello, il viso di un bambi­no che chiede l’elemosina. Percepisco stralci di conversazione in una lingua che pensavo di conoscere.
Non so che significa “pijala”, e me lo chiedo, continuando a correre spronata da una forza chimica.
Quando comincio a tossire, perdo il poco fiato rimasto. Piegata in due, con le mani sulle ginocchia, sento le gocce di sudore che mi scorrono sulla schiena, incollandomi la camicia addosso.
Una donna dal viso magro e ansioso mi si avvicina: «Ti senti bene?».
Io indietreggio di scatto.
«Non aver paura, dove devi andare?»
Le sussurro il nome della strada e lei alza un braccio, in­dicando un lungo tunnel alle mie spalle. Non lo avevo visto. «Dopo il Traforo, vai sempre dritto.»
Ancora affannata, m’incammino sul marciapiede stretto. Le macchine mi sfrecciano accanto smuovendo l’aria e fa­cendomi sobbalzare. Sembra un brutto sogno, di quelli da cui non riesci a svegliarti. I gas di scarico hanno annerito le pareti del tunnel, mangiandosi l’ossigeno. Sporco e pesan­te, il respiro filtra lentamente, senza darmi nessun sollievo. Stremata, mi volto: sono disposta a tornare indietro pur di uscirne. Ma gli spicchi di luce alle estremità di questo tubo sono equidistanti.
“Voglio tornare indietro.”
L’immagine del cortile della casa in montagna, con i pioppi frondosi e la polvere bianca smossa dall’aria fresca del mattino. “Non posso tornare indietro.”

* Pratica che vieta agli uomini di vedere le donne.

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