Paola Scarsi
Noi creiamo lavoro
Storie di imprenditori immigrati
2020, libro gratuito
Non sono quelli che ci rubano il lavoro. Piuttosto, con il loro ingegno, sono quelli che fanno crescere il lavoro, assumono gli italiani mai in nero, contribuiscono a far crescere il Pil del nostro Paese. Sono loro, gli immigrati che ce l’hanno fatta, i protagonisti del libro di Paola Scarsi, giornalista, collaboratrice di Avvenire, che ha voluto che il suo lavoro fosse gratuito sulla piattaforma di Google.
Le sue sono storie “normali” di stranieri arrivati in Italia che ce l’hanno poi fatta. «Ho scelto volutamente di non raccontare storie di sbarchi pericolosi, affrancamento da tratte o schiavitù», spiega Paola Scarsi dopo aver messo in fila la storia di un avvocato, un ristoratore, un imprenditore edile, un paio di manager e un sarto di successo. Una storia di eccellenza come tante tra le 600 mila imprese create da immigrati – il dato è di Unioncamere – che operano in Italia. Fabio Poletti
Per gentile concessione dell’autrice Paola Scarsi pubblichiamo un estratto del libro Noi creiamo lavoro.

INTRODUZIONE
Questo libro è rimasto nel mio cuore e nel mio cassetto troppo a lungo.
L’idea di raccogliere i racconti di imprenditori immigrati in Italia mi frullava in testa da qualche tempo: voleva essere una risposta concreta alle frasi fatte “Vengono qui e ci rubano il lavoro” “Perché non rimangono a casa loro?” “Ci stanno invadendo” “Stanno rovinando il nostro Paese” che tanti italiani ripetevano (e continuano a ripetere) riferendosi assai genericamente agli stranieri.
Le storie che ho raccolto cosi come i dati ufficiali (Unioncamere, Censis, Ministeri) confermano quella che per fortuna non è solo la mia convinzione: nessuno di loro ruba il lavoro, la maggior parte lo crea; e chi non lo crea… semplicemente lavora.
A ciò aggiungo che gli immigrati “rubano” lavori che nessun italiano farebbe.
Quale italiano andrebbe a raccogliere frutta o verdura di ogni tipo per pochissimi euro al giorno, vivendo in baracche senza energia elettrica e acqua? Quale italiano accetterebbe di essere pagato in nero e in contanti correndo il rischio di essere rapinato dopo pochi minuti come avviene nell’agro pontino?
Avevo già intervistato molti imprenditori immigrati per le pagine del quotidiano “Avvenire”: mi avevano raccontato la fatica di arrivare in un Paese sconosciuto senza saperne la lingua, gli usi, i costumi, i percorsi di studio. Nulla. E da questo “nulla” essere riusciti con impegno, dedizione e fatica a creare un’impresa, piccola o grande, a conduzione famigliare o con centinaia di dipendenti.
Dopo una prima serie di interviste, mi sono fermata per alcuni mesi e ho ripreso il lavoro solo qualche tempo fa.
Ho deciso di pubblicare il libro, senza arricchirlo di ulteriori dati o testimonianze, come avrei invece voluto, perché probabilmente dopo l’epidemia di Coronavirus molte cose saranno cambiate.
Lo devo ai tanti che mi hanno incoraggiato, aiutato, ascoltato, risposto e soprattutto donato parte del loro tempo raccontandomi la storia della loro vita.
Per scelta ho raccolto storie di vita vissuta da persone abbastanza “normali”, intendendo con ciò che ho evitato storie di emersione dalla schiavitù, dalla tratta, da situazioni di estremo disagio.
Il mio obiettivo era e rimane quello di raccontare vite come le nostre, di persone che sono arrivate nel nostro Paese per necessità, per amore, con la famiglia da giovanissimi. Tutte si sono impegnate, ci hanno messo volontà e impegno costante, hanno studiato di notte e lavorato di giorno, mantenuto le famiglie in Italia o nel Paese d’origine, hanno completamente stravolto o talvolta ripetuto gli studi già fatti.
Tutti sono grati al nostro Paese. Da nessuno di loro ho ascoltato parole di rabbia o dispiacere. L’unica lamentela comune è quella nei confronti della burocrazia, che viene vissuta in maniera ancora peggiore quando si proviene da un Paese che, almeno sotto questo aspetto, funziona meglio del nostro.
Un altro mio obiettivo è far conoscere e comprendere a tanti miei connazionali la fatica che moltissimi immigrati quotidianamente affrontano (o hanno affrontato) silenziosamente, senza dare fastidio a nessuno.
E noi vorremmo mandarli via?
Credo che dovremmo invece ringraziarli, per quanto hanno fatto per il nostro Paese e per l’esempio che ci hanno dato e continuano a darci.
Paola Scarsi
ALCUNI DATI
Secondo gli ultimi dati di Unioncamere in Italia un’impresa su 10 è gestita da stranieri. Al 30 giugno 2019 avevano superato le 600mila unità con una crescita – nel secondo trimestre dell’anno – doppia rispetto alla media delle imprese. In otto Regioni su venti rappresentano oltre il 10% delle attività economiche.
Il 40% di queste imprese si concentra nelle grandi province, prime fra tutte quella di Roma dove si contano oltre 69mila attività di imprenditori stranieri.
Commercio al dettaglio” (161mila), “lavori di costruzione specializzati” (113mila) e “servizi di ristorazione” (quasi 47mila) sono i settori in cui le imprese di stranieri sono più numerose. In altri due settori, la “confezione di articoli di abbigliamento” e le “telecomunicazioni”, le imprese di stranieri superano un terzo del totale.
Guardando la nazionalità, gli imprenditori stranieri sono in maggioranza marocchini, cinesi e romeni. Le imprese guidate da stranieri sono equamente diffuse su tutto il territorio nazionale, anche se in alcuni casi si assiste ad una significativa prevalenza di una singola nazionalità: è il caso di Milano, dove si colloca oltre il 43% del totale degli imprenditori egiziani, di Roma dove ha sede più del 40% delle imprese guidate da bengalesi o di Napoli, dove ha sede il 20,5% di tutte le imprese guidate da persone originarie del Pakistan.
Gli ultimi dati di Unioncamere indicano inoltre che sono solamente 400 i Comuni italiani “senza almeno un’impresa individuale con titolare straniero”, mentre sono poco più di 107 quelli in cui si contano almeno 500 attività economiche di immigrati, per un totale di quasi 220mila imprese pari al 46% del totale.
Secondo il Censis, infine, l’81% degli imprenditori stranieri presenti in Italia proviene da un Paese extracomunitario, il 23% è donna e il 71,6% ha meno di 50 anni.
VALENTIN FAGARASIAN
Una vita governata dalla forza di volontà, dalla tenacia ma anche – come spesso accade – dal caso, tre fattori che dalla Transilvania lo hanno portato a diventare titolare di una prestigiosa ditta di costruzioni e attuale Presidente di CNA World.
“Sono nato a Brasov, una bellissima città alle pendici dei monti Carpati, nella regione della Transilvania, non a caso una delle città più visitate della Romania.
Lì ho trascorso la mia infanzia, godendo di una libertà che i bambini di oggi non posseggono più. La scuola era molto impegnativa e si studiava tantissimo, molto più di adesso.
Subito dopo la maturità superai l’esame di ammissione come ufficiale dell’esercito ma rinunciai perché avrei dovuto trasferirmi lontano da casa e preferii fare il servizio militare, finito il quale mi iscrissi alla Facoltà di Ingegneria.
Sin da piccolo mi piaceva scoprire come erano fatti gli oggetti che smontavo e rimontavo; una volta però con un orologio molto antico di mia nonna non andò tutto per il verso giusto e lo rimisi nella custodia smontato perché non sapevo come ricostruirlo.
Intanto in Romania c’era stata la rivoluzione, l’inflazione era alle stelle, avevo 20 anni e tanta voglia di fare: così pensai di andare all’estero, guadagnare un po’ di soldi e ritornare per riprendere gli studi.
Nel 1992, dicendolo solo a mio padre, insieme a un amico partii per l’Italia – che scelsi per la cultura e la somiglianza tra i due popoli – non pensando al rischio di arrivare in un paese straniero senza conoscerne la lingua e senza avere qualcuno da cui andare.
Quando arrivai alla Stazione Termini di Roma, non sapevo davvero dove andare. “Se entro tre settimane non trovo un lavoro torno a casa”, mi dissi.
La prima cosa che feci fu comprare un dizionario per imparare le parole necessarie per sopravvivere: come salutare, come
cercare lavoro, i numeri. Era l’8 agosto e quasi tutte le imprese erano chiuse; qualcuno mi suggerì di andare in periferia dove forse era più facile trovare lavoro.
E così presi un pullman e scesi a Monterotondo (dove tutt’oggi risiedo).
Proprio davanti alla fermata c’era un cantiere e chiesi se avevano bisogno di un operaio. Capii solamente che sì, se fossi andato lunedì mattina alle sette e mezza avrei avuto 50mila lire. Chi parlava era il titolare ma io non lo sapevo.
Alle sette ero già davanti al cantiere: lo ricordo benissimo, era una meravigliosa giornata dopo ferragosto. Poco dopo arrivarono gli altri operai e il capocantiere mi portò davanti a un macchinario a me sconosciuto, mi disse qualcosa di incomprensibile e se ne andò. Si trattava di una mulazza che serve per impastare la calce e pozzolana. Senza avere idea delle dosi iniziai a fare l’impasto che, per puro caso o forse per logica, si rivelò ben fatto. Portai l’impasto sul tetto dove i muratori stavano posando le tegole e quando scesero per un caffè rimasi, cercando di ripetere il loro lavoro: lo feci così bene che il capocantiere decise di tenermi a lavorare”.
A questa persona Valentin deve moltissimo: “Una gran parte di quello che ho realizzato, in qualche modo è anche merito suo. Quando gli dissi che non sapevo dove andare a dormire, mi ospitò a casa sua. Purtroppo era molto malato e quando arrivo per lui il momento di dover chiudere la ditta mi raccomandò a tutti i suoi amici costruttori. Lavoravo per altri, ma continuavo ad accompagnarlo all’ospedale per le terapie, perché per me era e rimane più di un amico, un fratello.
I primi tempi sono stati difficilissimi, di giorno lavoravo in cantiere e quando staccavo facevo altri lavori di ristrutturazione, spesso sino a notte fonda. Mi mancavano la famiglia, gli amici, le tradizioni, al punto che a Natale del 1992 tornai in Romania, rischiando di non poter poi rientrare in Italia, perché non c’erano ancora accordi bilaterali tra le due nazioni. Invece ci riuscii e poco dopo, sempre grazie al mio primo datore di lavoro, ebbi anche il permesso di soggiorno.
Imparavo velocemente e in poco tempo divenni capo cantiere con l’opportunità di conoscere ingegneri, direttori dei lavori, responsabili di progettazione. Mi occupavo di quasi tutto, in alcuni casi persino degli incassi. Quando il titolare mi disse che voleva rientrare in Abruzzo, decisi di rimanere a Roma e di iniziare a lavorare in proprio aprendo una mia ditta.
Il suo primo mezzo di trasporto è una Fiat Punto che utilizza come auto e per il trasporto dei materiali di cantiere. Tutti i soldi che incassa, li investe in nuove attrezzature e lentamente la sua attività cresce.
Non è stato facile, anche perché dopo alcuni corsi di formazione e un percorso di studi alla LUISS decisi di iscrivermi nuovamente all’università riuscendo finalmente a laurearmi in ingegneria”.
“Le difficoltà incontrate sono state tantissime, mi mancava l’esperienza, non conoscevo le modalità di gestione e di contrattazione, spesso mi fidavo troppo dei clienti… ed è finita che tanti di loro non mi hanno pagato.
La burocrazia aumentava costantemente e di anno in anno diventava più difficile gestire tutto da solo. Però… avevo conosciuto quella che sarebbe diventata mia moglie e la madre dei miei figli e loro sono sempre stati quelli che mi hanno dato la forza di andare avanti nei momenti difficili, la mia vera gioia.
Anche gli affari sono andati bene e oggi – dice con orgoglio – sono titolare di una prestigiosa ditta di costruzioni, con cui ho realizzato grandi lavori compreso un intero outlet e numerosi edifici residenziali, uno dei quali è stato premiato da una rivista di architettura.
Con me lavorano sette tecnici, due ingegneri, due geometri, un’impiegata e due tecnici di cantiere. In cantiere lavorano persone qualificate, tutte con grande esperienza: in maggioranza sono di origine romene, però ho avuto polacchi, albanesi, moldavi e chiaramente anche italiani.
Sono anche Presidente del CNA World, che associa le aziende a titolarità straniera ed ho così modo di entrare in contatto con tanti imprenditori stranieri.
L’economia è sostenuta da persone che, come noi, hanno il coraggio di avventurarsi in questo tipo di impresa, che lavorano tra le 12 e le 16 ore al giorno, che si assumono tutti rischi, che sacrificano il loro tempo sapendo che non lo avranno mai indietro.
Tutti hanno fatto fatica, quasi tutti si sono autofinanziati e mi sento di affermare che oggi diventare imprenditore in Italia è quasi impossibile: credo che il Governo dovrebbe dare maggiori possibilità e agevolazioni a chi mostra di avere iniziativa.
Ciononostante mi trovo benissimo in Italia, anche se mi continuano a mancare la famiglia, i ricordi, le tradizioni, che però fortunatamente sono a solo due ore di volo.
In casa parliamo italiano e romeno, lingua che abbiamo voluto i nostri figli imparassero. Se però diciamo loro delle frasi in romeno, ci rispondono in italiano. Tanti figli di nostri amici romeni parlano solamente l’italiano. Cerchiamo di mantenere anche la tradizione culinaria, cucinando spesso piatti romeni. Ma la cucina italiana è tra le migliori del mondo e capita che andiamo a mangiare un piatto di pasta o una pizza anche quando siamo in Romania.