Elizabeth Arquinigo Pardo ha ventotto anni. È alta e molto fattiva. Arrivata dal Perù a dieci anni insieme a sua sorella minore Carolina, si è laureata in Lingue per la cooperazione internazionale e ha lavorato come interprete nell’Agenzia europea per l’asilo, Easo. Nell’ottobre scorso ha scritto una lettera aperta al ministro dell’Interno Matteo Salvini per chiedergli conto della modifica sulla legge che raddoppia i tempi per diventare italiani. E le impedisce di partecipare ai bandi, fare master all’estero e inseguire le sue ambizioni. Il vicepremier le ha risposto concludendo di tenerlo aggiornato, e lei ha colto l’occasione per scrivere un libello che riassume in breve la storia della sua vita e della sua famiglia. Dopo averla incontrata, abbiamo deciso di pubblicare alcuni estratti del libro pubblicato da People sul tema della cittadinanza, che spiega bene le frustrazioni di una generazione che non è riuscita a giurare sulla Costituzione.

La cittadinanza, in Italia, non viene regalata proprio a nessuno. Si tratta di un diritto che assomiglia molto di più a una concessione, dato che bisogna soddisfare requisiti ben specifici e non sempre facilmente perseguibili. Per esempio a causa delle tempistiche spropositate nell’ottenere i documenti dai Paesi di origine a causa di una burocrazia che non funziona adeguatamente, la stessa burocrazia che ci troviamo ad affrontare anche qui, con mezzi economici non sempre sufficienti – difficoltà che, soprattutto di questi tempi, conoscono in tanti, italiani e non. 

Eppure, ciò che troppo spesso si dimentica è che la maggior parte delle persone che presenta domanda di riconoscimento della cittadinanza ha ormai radici solide in Italia, e non avrebbe quindi nulla da dimostrare. 

Ciò che la sottoscritta e le altre trecentomila persone in attesa di ricevere questo riconoscimento esigono non è l’applicazione di leggi ad hoc, non è una deroga alla normativa, né tantomeno l’approvazione di nuove leggi (come sarebbe auspicabile). Ciò che noi esigiamo è l’applicazione di una legge, vigente fino a poche settimane fa, (fino ad ottobre scorso, ndr) che prevede che la durata dell’istruttoria sia di settecentotrenta giorni.

Settecentotrenta giorni sono già un termine inaccettabile, spesso definito “canzonatorio”, nel senso che la casistica vuole che non sia, nella pratica, mai rispettato e che molto spesso i tempi addirittura raddoppino. Ecco perché dobbiamo stare ulteriormente in guardia: il raddoppio dei tempi per decreto rischia di prolungare le tempistiche ben oltre il nuovo termine. Sono storie che tutti noi italiani senza cittadinanza conosciamo molto bene, perché sono le storie nostre, dei nostri amici, delle nostre famiglie: mia madre ha presentato domanda di riconoscimento della cittadinanza nell’aprile 2016 e a due anni di distanza non abbiamo avuto il benché minimo riscontro, nonostante i numerosi solleciti inviati dal nostro avvocato. Mentre scrivo, il sito del Ministero mi informa che «gli accertamenti di competenza dell’Ufficio periferico sono in via di definizione». Ora stiamo valutando la possibilità di fare ricorso al Tar, nonostante tutti i dubbi e le nuove disposizioni normative che dilatano i termini.

Mio padre ha fatto domanda nel settembre 2017: siamo stati in ballo quattro anni. Quattro anni di deleghe su deleghe ai miei zii perché andassero a recuperare il certificato di nascita di mio padre, che è richiesto in originale, firmato e timbrato dal ministero dell’Interno peruviano, e tradotto. Il problema è che mio padre è nato in un piccolissimo paese in una zona periferica del Perù, paesino che tra l’altro ora non esiste nemmeno più, dato che è stato fuso con un comune limitrofo. Alla fine mio padre ha dovuto andare in Perù, presentarsi di persona e parlare con il sindaco: solo così è riuscito a ottenere il certificato. Questo è ciò che succede quando si chiede ai cittadini stranieri di recuperare documenti nel Paese di origine: questo è ciò che ha chiesto la sindaca di Lodi perché i bambini potessero pranzare tutti assieme.

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Cosa vuole da noi, signor ministro dell’Interno? Invece di dire che siamo suoi amici basterebbe che ci lasciasse stare, che ci lasciasse studiare e lavorare come tutti i cittadini italiani: non pretendiamo alcun trattamento privilegiato, sarebbe per noi un’offesa. 

Io vorrei soltanto lavorare, e vorrei lavorare proprio nel mondo dell’integrazione: come traduttrice in Questura, come operatore legale, per farmi ponte tra le diverse culture e dare voce a chi non ce l’ha. Mi sono appassionata traducendo, studiando i regolamenti, leggendo gli accordi. Pretendo di essere lasciata in pace, di poter andare a studiare un anno all’estero, di poter fare carriera, di poter riportare in Italia, nel mio Paese, quel che ho appreso. Lo fanno tante ragazze e tanti ragazzi italiani, chi spinto o costretto dalla precarietà, chi dalla volontà di fare altre esperienze: a me questo diritto viene negato dal mio stesso Paese senza alcuna ragione.

Mi viene sempre più volte chiesto perché non posso aspettare quattro anni, che cosa mi cambia dopo aver aspettato tanto. Ora vi spiego che cosa cambia. Perché la spiegazione risulti chiara, vi chiedo di fare uno sforzo. Lo sforzo di immedesimarvi in altre persone. In un ragazzo di origini senegalesi, cresciuto e educato in Italia, di nome Babacar. Babacar parla il dialetto senegalese con accento milanese, si è laureato presso l’Università Cattolica di Milano in International Management, sta cercando lavoro. Fa molta fatica, molti datori di lavoro lo discriminano non per il colore della pelle – almeno si spera – ma per la nazionalità. Eh già! Quel passaporto senegalese gli impedirebbe di fare molti viaggi di lavoro, gli spiegano durante i colloqui. E con imbarazzo gli viene ripetutamente chiesto: «Ma perché non hai la cittadinanza italiana? Perché non hai ancora fatto domanda?». Quasi come se l’ottenimento della cittadinanza dipendesse dal suo livello di conoscenza della lingua, dal suo percorso accademico o dalla conoscenza della cultura italiana. Quasi come se fosse una sua colpa l’aver preferito studiare e fare domanda dopo, ed essere per questo motivo ancora in attesa di una risposta.

Molti di fatto ignorano che per ottenere la cittadinanza non conta quanto tu sia integrato né tantomeno quanto tu sia riuscito a dare professionalmente e culturalmente a questo Paese. Per questo molti ragazzi come lui e come me rimarranno vittime del passaporto di un Paese nel quale non vivono più e di cui non parlano quasi più la lingua, mentre attendono il riconoscimento del Paese in cui vivono, lavorano, studiano. Un riconoscimento che fatica ad arrivare e che vediamo sempre più lontano. O provate a mettervi nella pelle di Fabian, nato in Ecuador, che vive a Lecco da oltre quindici anni. Era in viaggio per lavoro in Svizzera e ha rischiato di essere rimpatriato. Ma non a Lecco, dove abita, lavora e studia stabilmente: ha rischiato di essere rimpatriato in Ecuador.

Capito che cosa intendo dire? Ecco che cosa ci cambia: non essendo cittadini italiani ci vediamo sempre più spesso negati diritti e opportunità. In molti casi azioni normalissime, quali la ricerca di un impiego o un viaggio di lavoro, si trasformano nell’ennesima constatazione di essere considerati ancora stranieri a casa propria.

A me e agli italiani come me non sarà riconosciuta neppure una piena cittadinanza. Il decreto Salvini introduce infatti la possibilità che la cittadinanza venga revocata, ma non a tutti gli italiani: solo agli italiani che lo sono diventati in un momento successivo a quello della nascita, a coloro che non lo sono “per sangue”. La cittadinanza viene così trasformata da riconoscimento a “gentile” concessione, concessione che può essere quindi revocata. Come a dire che non saremo comunque pienamente cittadini, ma saremo cittadini di serie b, un gradino sotto rispetto a coloro che lo sono per sangue. Si tratta di un’idea di cittadinanza tanto discriminatoria quanto violenta, perché si muove sullo stesso terreno della purezza della razza, della razza bianca da tutelare di cui parlò il governatore della Lombardia, Attilio Fontana. La nostra identità continuerà a essere ritenuta gerarchicamente inferiore.