Il libro con cui capisco che la lettura è una forza parla di Nick, un ragazzino delle medie, che un giorno decide di sfidare la scuola e le regole della grammatica per inventare una parola: “Drilla”. È una rivoluzione dolce che invade il mio piccolo mondo che inizia sul letto con la trapunta rosa e finisce alla finestra che dà sui campi della provincia; con la luna coperta dalla nebbia di inverno e d’estate le cicale dei campi che mi fanno perdere il segno. Un dono inaspettato, la scoperta che con le parole si può tutto.

Sono i primissimi anni delle elementari; quelli in cui il se leggi già in stampatello è solo gloria e vanto. Io non mi vanto ma adoro girare le pagine, tornare indietro e rileggere i passi più belli; ignoro le immagini e creo in testa i personaggi come li voglio io; gli cambio sesso, gli do la voce simile a quella di Nicola – il mio vicino di casa che non mi saluta mai – o cerco delle somiglianze con le persone della mia nuova vita.

Sono stata adottata a quattro anni e quando chiedono della mia vita di prima, l’unica cosa che ricordo è che allora eravamo tanti. Perché la mia storia inizia in Ruanda, continua con la morte di mia madre per le mancate cure dell’HIV e va avanti con mio padre che sceglie il mio nome e poi mi porta in un orfanotrofio con la promessa che verrà a riprendermi.

Il primo colpo di scena è una guerra civile: il genocidio ruandese del 1994. Due etnie, un conflitto guidato dall’alto di un aereo che precipita in una notte di aprile e poi articoli di giornale che narrano l’orrore di quasi un milione di persone uccise in meno di cento giorni. Non so ancora cosa siano un verso, una pagina, un segnalibro quando scappo su uno degli ultimi aerei in partenza dalla capitale del Ruanda.

Prima eravamo tanti. Precisamente quarantuno, tutti bambini. La nostra fuga termina in un paese della provincia di Brescia. Il benvenuto ce lo danno l’associazione che ci ha permesso di arrivare in Italia, un asilo trasformato in un centro accoglienza improvvisato, un’ondata di solidarietà da parte della comunità e cibo, giochi, vestiti nuovi, gite, cure e amore. È l’estate del 1994 e alcune delle mille e più persone che sono venute ad accoglierci e ad aiutarci da lì a pochi mesi diventeranno i nostri genitori adottivi. Secondo colpo di scena.

Ho nove anni e un fulmine mi folgora in pieno petto. Ha un nome: Roald Dahl. Ogni volta che finisco di leggere qualcosa di suo con me ridono i polmoni, lo stomaco, il sangue e tutta la pelle. La fabbrica di cioccolato e Il grande ascensore di cristallo, Gli sporcelli, Il GGG, Le streghe, Danny il campione del mondo non mi fanno solo compagnia o ridere o paura. Mi fanno crescere, mi fanno sentire meno sola, più capita, più amata, accettata. E per questo credo di avere tutto quello che mi serve – illusa. Me ne rendo conto solo quando arriva Matilde. Lì capisco due cose: cosa vuol dire amare un libro e quello che voglio fare da grande. Però ho solo dieci anni e non trovo le parole giuste per spiegarlo. Ci vorrà ancora un po’ di tempo.

Crescere in pianura e in provincia mi porta ad amare i campi di gran turco ma ad odiare la piazza centrale. Quando appaio in paese con i miei capelli ricci e la mia pelle scura non è né strano né difficile: solo diverso.

Al bar i vecchietti mi chiedono “sei la figlia di chi tu?”; la tabaccaia non mi vende i francobolli perché non si fida dei soldi che le do anche se a mandarmi è mia madre che vuole indietro il resto; i compagni di scuola in mensa con me non ci vogliono mangiare, si siedono lontani, pure il mio vicino di casa che non mi saluta mai, soprattutto lui. Ma non è né strano né difficile: è normale.
Un giorno mi parlano di questo posto che sta dall’altra parte dello stradone che divide il paese in due isole. Si chiama biblioteca comunale, ha tantissimi scaffali pieni di libri e lì posso andarci quando mi va e prendere tutti i libri che voglio. Quando entro fisso per ore gli scaffali, leggo tutto quello che capita, rido per i titoli buffi e poi scelgo. Lì conosco Matteo, il bibliotecario. Terzo colpo di scena: a dieci anni finalmente ho un migliore amico anche io! Sto per iniziare le medie, ho un’intera parete di scaffali di libri a disposizione e se la tabaccaia non mi dà i francobolli adesso non ci rimango più così male.

Ho dodici anni, i capelli crespi e i jeans mi vanno sempre più stretti, a matematica faccio schifo ma sotto al banco ho sempre un libro. Sono gli anni di mio padre che mi dice alle 22 spegni tutto ma io due ore dopo ho una torcia in mano. E mi chiedo come farà Ron ad esercitarsi con Crosta, come si può vincere la battaglia contro gli orchi delle Montagne Nebbiose, qual è il sapore del latte delle mucche di Ngorongoro o com’è possibile che la famiglia Zep non capisca come stanno le cose.
A scuola seguo solo storia e italiano. Storia perché nei paragrafi cerco il racconto della mia di storia; anche solo un frammento, una prova. Ma sui libri del genocidio del Ruanda non ne parla nessuno, e quando i compagni di banco mi chiedono cosa sto cercando rispondo niente.
Un giorno arriva maggio, gli alberi scommettono tra di loro su chi tira fuori i fiori più profumati e Laura Tartari, la mia insegnante d’italiano alle medie, ci legge i versi di un uomo che aiuta il suo amore a scendere le scale della vita. Conosco Eugenio Montale e scopro la poesia. Sono in seconda fila, piango.

Alle superiori comincio a sentirmi in gabbia. Studio lingue, economia aziendale e matematica finanziaria. Tutto quello che mi rimane in testa però sono i 10 in italiano, le poesie di Machado e la tigre di Blake, il realismo di Zola e le rivoluzioni illuminate.

Il mio corpo cambia e io non gli sto dietro; è imponente, diverso e rumoroso. Lo capisco alle fermate degli autobus, quando firmo la mia carta d’identità e nelle assemblee di istituto in cui non voglio mai dare nell’occhio. Vorrei stare meglio. Ma a scuola non te lo insegnano.

Andare in libreria diventa un regalo, una consolazione. Mi trasferisco a Trento per studiare Scienze politiche e i soldi del pranzo vanno alla libreria Ubik. Pennac, Benni, Joyce, Dostoevskij, Coe, Hikmet, Ammaniti. Pure a Bologna, a due passi dalle due torri e il vuoto in testa. Cunningham, Rilke, De Silva, Salinger, Camilleri, Lee, Hornby. Divoro tutto, mi stupisco di più. I miei ventidue anni mi chiedono di non smettere. Mi interrogo, spengo la rabbia, mi entusiasmo, mi scopro ignorante, mi ritrovo curiosa. Ho saltato la muraglia che ha in cima cocci aguzzi di bottiglia. La lettura mi rende libera.

A ventiquattro anni seguo le orme del Nick di Drilla e punto i piedi davanti alla mia scuola che è un’università e alla grammatica del buonsenso. Scelgo di seguire il mio sogno: faccio un test di ammissione. Arriva ottobre ed entro alla Scuola Holden di Torino. Ennesimo colpo di scena o, come ho imparato a dire, plot twist.

Con me ho solo quattro scatoloni: uno di vestiti e tre di libri. Tutto il resto è un’incognita. Mi torna in mente la partenza dal Paese che mi ha fatto nascere per andare chissà dove.
Sono gli anni più intensi fino a quel momento. Vivo un desiderio che ho da quando leggevo sotto le coperte dopo le 22. E non devo nascondere i libri sotto al banco, alle assemblee ogni tanto alzo la mano e tutte le persone che conosco mi ricordano un po’ Matteo, il bibliotecario.

Frequento il corso di giornalismo perché non ho smesso di cercare il paragrafo che parli della mia storia. Scelgo di andare in fondo alle storie vere per poi tornare in superficie per raccontarle. Conosco Capote e Carrère, recupero i testi della Fallaci, poi Durrel, Moehringer, Ginzburg. Senza volerlo, senza capirlo inciampo nei saggi dei tempi che vivo e non capisco. Incrocio l’intelligenza di Harari, mi interrogo con Diamond, mi incaponisco con Eco e mi arrabbio con Baumann. C’è qualcosa che faccio fatica a riconoscere, che mi dà fastidio ma non lo riconosco. Fino a quando non sfoglio Ibisco viola di Chimamanda Ngozi Adichie e La mia casa è dove sono di Igiaba Scego. Si apre un varco, uno squarcio nella nebbia dalla pianura. Da lì capisco tanto, tutto forse. James Baldwin, Toni Morrison, Igoni Barrett, Zadie Smith, Maria Angelou e i più “giovani” Ta-Nehisi Coates, l’etiope Maaza Mengiste, l’ugandese Harriet Anena, Colson Whitehead, Afua Hirsch, Angie Thomas. Uomini e donne figli dell’Africa che ho sempre cercato nei paragrafi. Sono tutti qui, a mia disposizione.

Capisco che la scrittura può essere un messaggio; partire da una storia vera e renderla manifesto, medicina, calmante, salvezza. Scopro che per il mio corpo, per la mia storia esistono testi interi. Capisco la parola rappresentazione, comprendo il termine afrodiscendenza, respiro. Ora il mio corpo è perfetto, non è più l’unico e quando entra nelle stanze non fa più rumore, a volte suona.
E proprio lì mi ritorna alla mente la Matilde di Dahl. Sono passati quindici anni, le sensazioni di allora adesso sono perfette.

Partendo dalla mia voglio raccontare una storia universale. Perché Matilde mi ha salvato trattenendomi per il bavero della giacca di una rabbia che non capivo. Perché era solo mancanza; uno spazio tra la mia storia personale e la realtà, un vuoto tra i libri che ho letto e quello che vedevo allo specchio ogni giorno.

Raccontare per rendere la paura meraviglia, gli ostacoli muraglie da saltare, le scelte aeroplani su cui salire con fiducia e le parole poteri magici che trasformano il mondo in un’avventura che può finire bene.

E adesso?

Colpo di scena?

 

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