È nato a Bucarest durante la rivoluzione ed è convinto che, non fosse stato afrodiscendente ma un qualunque bambino rumeno caucasico, avrebbe vissuto diversamente: «Perché certi processi, chiamiamoli così, di integrazione, a cui comunque nella vita ho dovuto far fronte, non ci sarebbero stati. Sarebbero emerse altre diversità, sempre che di diversità si possa parlare». Adottato da una famiglia comasca nel 1991, Dorin D’Angelo Rossi è architetto e vive a Como.

È nato durante una rivoluzione.

«Sì, nel marzo 1989: la rivoluzione vera e propria è scoppiata a novembre, Ceaușescu è scappato dal palazzo presidenziale a dicembre, per poi essere fucilato. Quindi, a tutti gli effetti, sono nato in un momento in cui un Paese era allo sbando completo. Mia madre adottiva ha conservato un articolo del Venerdì di Repubblica di allora, che parlava della rivoluzione rumena e mostrava lo stato di guerra: i carri armati erano in mezzo alle strade, le pile di cadaveri…».

Dove è nato e cosa ricorda di quel periodo così significativo?

«Sono nato nell’ospedale centrale di Bucarest e intorno ai 6 mesi sono stato trasferito all’orfanotrofio di Vidra: mia madre biologica, almeno stando ai documenti, era rumena e bianca, mio padre invece alla nascita non mi ha riconosciuto. Vidra è una cittadina che si trova 20 km a sud di Bucarest, in mezzo alle campagne. Non ne ho memoria, se non per via delle fotografie un po’ impietose che mia mamma ha fatto nell’inverno del ‘90, ma è un posto anche bucolico, almeno da quello che ho potuto vedere più di recente, usando Street View di Google».

Quanto tempo aveva quando è arrivato in Italia?

«Nel 1991 i miei genitori sono arrivati a Bucarest per portarmi a Como, in Italia: mi raccontavano che, in quel periodo, mentre soggiornavano in un grande albergo di Bucarest, un cameriere era entrato in sala una mattina dicendo che non sapeva cosa dar loro da mangiare perché non avevano fisicamente più niente, da mangiare. Doveva veramente essere una situazione al limite del disfacimento totale. Entrambi si ricordano questo viale del palazzo presidenziale a Bucarest, che è gigantesco…».

Uno degli edifici amministrativi più grandi al mondo.

«Esatto, se la gioca con il Pentagono. Ricordano questo vialone devastato, il palazzo presidenziale disabitato: questa gigantesca mole grigia che incombe sulla città, anche perché per costruirlo è stato demolito un intero quartiere. Ho visto un documentario molto interessante che spiegava come durante la demolizione avrebbero dovuto buttare giù anche una chiesa ma, per evitarlo, è stata presa, sollevata dalle fondamenta e portata via. Non lontano, immagino». 

Non stupisce che focalizzi la sua attenzione sugli edifici, vista la professione che fa. 

«Ho studiato architettura grazie al mio professore di arte del liceo, a Como. Quando abbiamo studiato il Partenone e l’Acropoli di Atene, e si parlava dei giochi prospettici messi in atto per rendere quanto più armonico all’occhio umano, mi ha affascinato il potere dell’architettura di influenzare ed entrare nella vita delle persone, senza che se ne rendano conto. Quindi mi sono iscritto al Politecnico di Milano e ho passato il test, al primo colpo: quando ho visto le graduatorie, inizialmente ho pensato ad un omonimo, un altro Rossi».

Anche se lei porta entrambi i cognomi…

«L’unione del cognome di mia madre a quello di mio padre è un processo che sto mettendo in atto. Mi piace l’idea che entrambi siano rappresentati nel mio nome. Nel mio processo di formazione e di crescita entrambe le figure sono state fondamentali. E ho apprezzato molto da parte dei miei genitori è la scelta di mantenere il mio nome, cosa che invece non è successa a una mia amica, anche lei adottata, che oggi vive a Brescia». 

Conosce o fa rete con altri ragazzi adottati?

Ho una carissima amica, che considero quasi una sorella, anche perché veniamo dallo stesso orfanotrofio. Anzi, sono stati proprio i suoi genitori a dire ai miei dell’esistenza dell’orfanotrofio. Mi hanno raccontato che venivo descritto come l’unico ad avere accesso alla televisione e il cocco delle infermiere.

E oggi, quali sono gli stimoli dai quali è più influenzato, lavoro a parte?

«Oltre a fare l’architetto ho iniziato a collaborare molto con l’ordine degli architetti di Como: faccio parte sia della commissione Cultura che di quella Giovani. Poi, sono un membro del Gruppo Giovani Fai di Milano: frequento il Fai da tanti anni e ho pensato che fosse interessante dare una mano. Con Confindustria Como, invece, presto farò parte del progetto XStudent, per simulare colloqui di lavoro agli studenti delle scuole superiori, in particolare per i licei».

Di cosa si tratta?

«Viviamo in un mondo più fluido, non è così automatico che, dopo il liceo, un ragazzo vada a fare l’università. Un tempo, era l’istituto professionale quello che ti preparava al mondo del lavoro, il liceo all’università. Oggi invece c’è l’esigenza di entrare nel mondo del lavoro, di avere gente che sappia fare un mestiere». 

Lei dice così ma la laurea l’hai presa.

«L’architetto in una certa forma è un artigiano: hai a che fare con la materia, hai a che fare con la tridimensionalità e lo spazio, hai a che fare con la forza di gravità perché, banalmente, ciò che progetti deve stare in piedi. Sei un artigiano dello spazio, se vogliamo. Ma, come dicevo, con il grande potere di cambiare la vita delle persone, quasi senza dirglielo».

Foto: Alessandro Ronchi