Originario del Burundi, è arrivato in Italia grazie alla borsa di studio di un’università cattolica italiana. Adélard Kananira è gay, nato in un continente dove l’omosessualità è illegale in 32 stati. Immigrato in un Paese che spesso volta le spalle allo straniero, riversandogli addosso ogni colpa e frustrazione. Cattolico e osservante, in una Chiesa che non accetta l’omosessualità. Eppure Adélard Kananira ama e prega. Crede nel dialogo, un cammino lento ma pedagogico verso un’evoluzione delle istituzioni, religiose e non, e della società. Del resto quel che siamo oggi è il frutto delle innumerevoli battaglie del passato, combattute da giovani coraggiosi come Kananira. Con la collaborazione di Tenda di Gionata, ha fondato GayChristianAfrica, un sito dove accogliere la comunità gay, migrante e cattolica (ma non solo), per non non sentirsi isolati.

Come l’avete vissuta, la quarantena?

«Alcuni nel corso della pandemia si sono scagliati contro i gay, identificandoli come la causa del Covid-19, visto come punizione divina. È del tutto infondato, ma se li fa dormire bene la notte… Noi invece ci siamo voluti rendere utili. Insieme ai ragazzi della nostra rete in Italia, ci siamo ritrovati tutte le sere per recitare le Lodi e la Compieta, un modo per sentirsi vicini e dedicare un pensiero a chi è stato coinvolto in prima persona dal virus. Nella domenica di Pasqua abbiamo partecipato ai Vespri internazionali, un’iniziativa che ha messo in contatto e unito ragazzi da tutto il mondo, soprattutto dall’Africa».

Molti si sono sentiti abbandonati a loro stessi durante la pandemia, soli. Sentirsi parte di una comunità, seppure online, è stato di enorme conforto.

Cosa significa per lei essere omosessuale e sentirsi parte della Chiesa?

«La storia è fatta di cambiamento e di piccoli passi avanti. Un tempo i neri non potevano andare a scuola con i bianchi. Ma nel 2008, un Paese pieno di contrasti come gli Stati Uniti ha eletto un presidente nero. Bisogna credere nel cambiamento e impegnarsi in prima persona per attuarlo. È lo stesso approccio che ho io come cattolico omosessuale: voglio impegnarmi affinché la Chiesa evolva».

Perché ha fondato GayChristianAfrica?

«Qui in Italia ho preso parte ad iniziative come quella dei Giovani Cristiani LGBT e, proprio poco dopo il mio arrivo, a una conferenza di In Cammino a Bologna. Mi sembrava di vivere un film: coppie gay che partecipavano, un dialogo aperto sull’argomento. Per la prima volta ho pregato sapendo che Dio c’è, che non sono un cristiano di seconda categoria. Il mio progetto è quello di esportare queste iniziative anche in Africa, raccogliendo una community di immigrati e stranieri gay in Italia e all’estero».

Cosa significa essere un cristiano di seconda categoria?

«In Burundi, per quanto non sia uno dei Paesi africani più chiusi sull’argomento, la mia omosessualità veniva vista come una fase transitoria di cui era meglio non parlare, una malattia da cui dover guarire il prima possibile. Dai capi spirituali nel migliore dei casi mi sono sentito dire “Sicuramente cambierai, l’importante è che tu sia cristiano”. La Chiesa in Africa è totalmente impreparata ad affrontare questa tematica».

Cosa significa essere africano, gay e cattolico, in Italia?

«Seguendo i propri pregiudizi, uno potrebbe dire: “E poi che altro?”. La società italiana è indubbiamente più aperta ed esistono dei diritti. Però io subisco sia il giudizio di una comunità cattolica molto chiusa, sia la diffidenza degli italiani verso gli immigrati».

I neri gay qui vengono spesso presi per escort, il pensiero istintivo è che siamo così disperati da voler vendere il nostro corpo. Cambiare questa mentalità è parte del mio progetto.

Quali sono gli obiettivi di GayChristianAfrica ?

«Sono partito con l’identificazione di un soggetto, ma vuole essere un’iniziativa inclusiva. Religione, provenienza, non fanno la differenza. Sono i diritti di tutti noi LGBT. Non basta che vengano garantiti dei diritti, è prioritario creare uno spazio nella società per viverli, poi le tutele legali arrivano. Il mio sito vuole essere un punto di riferimento, dare un volto alle testimonianze che raccoglie. È rivolto innanzitutto ai gay africani: sono tanti e se si unissero potrebbero far sentire la loro voce e veder riconosciuti i loro diritti, ma spesso non si accettano neanche loro. E poi è rivolto anche agli omosessuali immigrati in Italia».

Quali sono le loro principali difficoltà?

Ovviamente il giudizio degli altri, siano essi italiani o parte della comunità africana in Italia. La paura è quella di venirne allontanati o il timore di come potrebbero reagire le proprie famiglie. Un altro problema è quello di non riuscire a sentirsi rappresentati dal modello di omosessualità occidentale. Per alcuni è la realizzazione di un sogno, per altri un’esposizione eccessiva della propria sessualità.

C’è un numero consistente di donne in queste iniziative?

«Minore degli uomini. Credo sia perché in generale le donne hanno meno attenzione e rilievo in Africa. E in qualche modo l’omosessualità tra donne è considerata meno “disgustosa”».

Molto spesso si sente dire che l’omosessualità viene usata come stratagemma per ottenere lo status di rifugiato.

«È vero che molti Paesi africani hanno politiche persecutorie nei confronti dei gay, ed è vero che per disperazione si può far tutto. Ma se lo lasci dire da un africano: ci sono uomini che si farebbero ammazzare piuttosto che fingersi gay. Il background culturale pesa molto più di quanto possa sembrare a uno sguardo occidentale».