Eden Embafrash, 40 anni, nata a Genova da genitori eritrei, due figlie piccole, costumista per il cinema e il teatro, imprenditrice della moda con il marchio Racine e insegnante ai corsi di sartoria dell’Accademia del Lusso e della Cna, se la ride dei pregiudizi: «Quando mi chiedono di dove sono rispondo che sono genovese. Basta questo talvolta a smorzare ogni curiosità. Ma Genova è una città atipica. È una città internazionale grazie al porto. È multicolor, come dico alle mie bambine che vanno in una classe dove ci sono cinque o sei nazionalità. Quando i miei sono arrivati qui c’erano già tanti sudamericani».

Eden Embafrash, di che anni sta parlando?

«Anni Settanta, quando i miei genitori sono venuti qui dall’Eritrea. Mio padre era un marinaio. Mia madre era una colf. Si sono conosciuti qui grazie ad amicizie comuni. Poi sono arrivata io».

Una bambina italiana con la pelle scura agli inizi degli anni Ottanta…

«Nessun problema. A Genova essere internazionali era quasi una bandiera di cui essere orgogliosi. Ero Eden e basta. Oggi sono cambiate le cose, è cambiato il clima».

È più difficile?

«Credo sia un problema generazionale. Negli anni Sessanta e Settanta il problema erano i meridionali. Oggi sono gli stranieri. Ho accompagnato le mie bambine all’open day della scuola. Una classe multicolor. Almeno cinque nazionalità diverse. Mi sento io stessa testimone di una città che sta cambiando. Anche se credo che oggi un’adolescente con il velo abbia più problemi».

È mai stata in Eritrea?

«Sì, spesso. Soprattutto quando erano in vita i miei nonni. Mi capita spesso che mi chiedano da dove vengo. Rispondo che sono di Genova.  Chi vuole sapere di più cerca di invadere la mia privacy».

Si sente legata alle sue radici?

«Parlo pochissimo la lingua eritrea. E poi è un Paese complicato, con una dittatura e divisioni nella popolazione. Quando sento soprattutto i giovani atteggiarsi di più all’occidentale quasi a voler nascondere le proprie radici penso che sia sbagliato. Non si possono perdere le proprie origini, la nostra cultura. Sono un arricchimento».

È un atteggiamento così diffuso?

«Credo sia una questione di paura. Nascondono le proprie origini per cercare di mimetizzarsi. Ma anche qui c’è un problema generazionale. I giovanissimi tendono ad appiattirsi e ad adeguarsi a un modello unico che li rende tutti uguali».

Dai costumi alla moda, come ci è riuscita?

Ho lavorato in diverse produzioni. La signora delle camelie con Francesca Neri, Il bosco fuori, un horror di un esordiente italiano e poi altre collaborazioni a Cinecittà. Poi sono finita in Molise dove ho lavorato in un’azienda che produceva per Cavalli e Ferré. Quando sono tornata a Genova ho iniziato a collaborare con l’Accademia del Lusso. Adesso ho un marchio mio di moda concettuale contemporanea. Si chiama Racine Fashion Design che, guarda te, in francese vuol dire proprio radice.


E poi fa parte di Nuovi Profili, associazione nata per valorizzare la pluralità culturale e le nuove generazioni.

«Non mi ero mai occupata prima di questioni sociali. È importante che esista un network per conoscersi. La debolezza degli stranieri o degli afroitaliani è dovuta anche a un problema di rappresentanza. Magari non c’è voglia di prendersi questo potere…».

In che senso?

«Credo che conti molto la determinazione. Guardiamo alle lotte fatte negli Stati Uniti. Rosa Parks che nel 1955 si rifiuta di cedere il posto a un bianco su un autobus nell’area a loro riservata non è solo un’afroamericana stanca dopo una giornata di lavoro. È anche un’attivista dei diritti umani e sociali. Sono persone così che alla fine hanno creato quelle forme di associazionismo che negli Stati Uniti si battono per i diritti e sono molto forti. Oggi in Italia non esiste nulla di simile. Forse solo i cinesi che sono molto organizzati tra loro ma alla fine non hanno particolari necessità di integrazione. Lo vedo anche nel mio ambiente, dal cinema alla moda. L’integrazione sociale è molto più facile ad alto livello, sia nella cultura che nelle professioni».