Sarò polemica, irritante e impopolare ma er dibbbattito con tre b sul barbaro pestaggio e omicidio di Willy Monteiro Duarte (e mettiamolo per esteso il suo nome e cognome che ovunque, dai social ai titoli dei giornali, la vittima viene chiamata solo per nome come fosse un pupazzo) mi pare sfocato, per usare un eufemismo.

Sarò inutilmente polemica, volutamente irritante e consapevolmente impopolare ma tutte queste discussioni sull’ennesima morte, frutto di una subcultura che per molti, troppi, si riduce alla parola “fascio” rilanciata persino dalla coppia più famosa di Instagram, Chiara Ferragni e Fedez, mi paiono oltraggiose.

La Valle laziale del Sacco, di cui fanno parte Colleferro e Alatri, è un territorio dove prevalgono la logica del branco, il sopruso e la violenza fine a sé stessa. Come spiegato all’Agenzia Dire da Mino Massimei, presidente del Circolo Arci di Artena (borgo dove sono cresciuti i fratelli Bianchi): «Per un ragazzo qui ad Artena è più facile intraprendere un’attività di spaccio, anche piccola, che tentare un tirocinio formativo o un primo contratto di lavoro subordinato, perché tra l’altro si guadagna di più. Poi un segmento di popolazione giovanile è affascinato dalla vecchia criminalità di 50-60enni e da un immaginario legato al culto della forza».

Per ora, il magistrato che ha firmato il fermo di custodia cautelare dei picchiatori tatuati, palestrati, tracotanti figli del degrado culturale esploso con maggiore prepotenza dopo il lockdown, ha stabilito che l’aggravante dell’omicidio è da catalogare tra i “futili motivi”.

E invece la macchina della battaglia politica si è messa in moto, dal ventre della campagna elettorale. Tutto si riduce al fatto che Willy Monteiro Duarte era un italiano con la pelle nera (non di colore, tutte le pelli hanno un colore, non ci stuferemo mai di ripeterlo), quindi immigrato, quindi vittima del suprematismo razziale. Perché? Perché i familiari dei fratelli Bianchi, noti per i loro pestaggi, hanno minimizzato, dicendo che lui, Willy, come viene chiamato, era solo un immigrato.

E invece Willy Monteiro Duarte era un italiano, aiutante chef di 21 anni con background migratorio. Parte di una generazione che è stata definita involontaria perché è nata e cresciuta in Italia e non ha scelto di emigrare

Sarò e voglio essere fuori dal coro, moralista e irritante come mai perché irritata: il suprematismo razziale è una cosa seria e non può essere banalizzato. O confuso con la violenza endemica in zone del Paese in cui vince l’illegalità, la logica del branco. E poi se tutti sono razzisti, alla fine nessuno lo è.

Se verrà confermato, come pare, che la morte di Willy Monteiro Duarte è solo frutto del vuoto pneumatico di un’educazione mancata, di bullismo patologico, fuori e dentro le palestre, e non di una filosofia razzista pensata e praticata. L’indignazione da social che mescola troppi piani porta verso una regressione fatta di slogan, processi alle intenzioni e notizie mai verificate che tanto basta un titolo di giornale e siamo tutti Willy.

NO. Troppo facile. Willy Monteiro Duarte era un italiano di origini straniere come lo sono 3 milioni di figli dell’immigrazione. Molti sono protagonisti delle loro esistenze e hanno raggiunto traguardi che i loro coetanei autoctoni talvolta non hanno manco sognato di raggiungere

Molti altri invece faticano ad avere uguali diritti e a ottenere la cittadinanza, ma sono italiani e la retorica sull’immigrato oppresso che sbarca segnato dalle torture in Libia ci porta su un altro piano. La pelle scura di Willy Monteiro Duarte lo ha reso più vulnerabile agli occhi dei suoi aguzzini? Probabile, ma non scontato.

Willy Monteiro Duarte non è George Floyd, Jacob Blake, Daniel Nyarko o il sindacalista Soumaila Sacko, per citare alcune delle aggressioni razziali più cruente fra l’Italia e gli Stati Uniti. Se vogliamo crederci perché così tutto quadra e ci salviamo le coscienze, non aiuteremo a sconfiggere il razzismo più pericoloso: pensato, studiato, praticato con bersagli precisi.

Fra i reati di odio e i reati per odio c’è un labile confine che deve restare tracciato

Sarò irritante, moralista e impopolare ma attenzione: il problema delle discriminazioni verso i figli degli immigrati o adottati con la pelle nera è dannatamente serio per confonderlo con una rissa finita tragicamente. Mi piacerebbe che la stessa foga venisse usata contro le discriminazioni quotidiane e vedere campagne serie per la cittadinanza attiva (ad esempio il diritto al voto) per una vera integrazione, senza pregiudizi, di tutti gli italiani di origini diverse.

E siccome noi ci crediamo alla società interculturale, questa settimana abbiamo raccontato altre storie di traguardi tagliati. Da Kristah, la rapper bergamasca che canta la sua emancipazione, di Mariarosa Porcelli, a Mehret Tewolde, direttore esecutivo di Italia Africa Business Week: manager dal cuore giallorosso (grazie anche a Eduardo De Filippo) intervistata da Marco Lussemburgo.

E siccome noi ci crediamo alla società interculturale e pensiamo che si debba favorire la leadership di italiani di tante origini, siamo focalizzati sul seminario che si terrà il 2 ottobre alla Triennale, a Milano, con leader per l’inclusione che rappresentano un antidoto a quella violenza culturale e fisica che ha ucciso Willy Monteiro Duarte

 

Foto di Willy Monteiro Duarte presa da Facebook.