Un’impresa al limite dell’impossibile, raccogliere il mare con un cucchiaino. Due volte più difficile se in quel cucchiaino nuotano, e troppo spesso annegano, migranti e richiedenti asilo. Raccoglierli, accoglierli, dare loro un futuro è la mission di Regina Egle Liotta in Catrambone che insieme al marito Christopher nel 2013, dopo il terribile naufragio a Lampedusa che causò centinaia di vittime, ha fondato un’organizzazione umanitaria internazionale che si chiama MOAS, Migrant Offshore Aid Station. Da questa esperienza Regina Catrambone ha tratto il libro Raccogliere il mare con un cucchiaino, ora pubblicato da Città Nuova.Il racconto di Regina Catrambone si fa toccante quando racconta dei migranti e dei richiedenti asilo incontrati nei suoi anni di attività. Racconti a volte delicati, a volte più crudi quando sono accompagnati a violenze spesso inimmaginabili. Come il bambino che vorrebbe essere superuomo per difendere la madre dagli stupri nei campi in Libia, al centro dell’estratto che alleghiamo. Un bambino già adulto, che le scudisciate della vita le ha iniziate a ricevere sul suo corpo troppo presto. Ogni incontro, ogni racconto, è denso di umanità. I migranti non sono più folla anonima, numero statistico, problema sociologico. Diventano occhi e mani, corpi e sentimenti. Cosa che sembrano spesso dimenticare i vertici delle istituzioni che nel gioco della politica, sulla pelle dei richiedenti asilo, modulano ideologie e bracci di ferro con altri governi o dentro la comunità europea, dimenticando che pure i richiedenti asilo sono uomini e donne e bambini e talvolta popoli interi. Chiude il libro un dizionario delle parole più comuni, raccontate in un modo assai diverso dalle cronache dei giornali e della televisione.Dove il termine emigrazione è visto come l’esatto contrario di una emergenza: «Spostarsi è una esigenza vitale che può essere gestita e che va trattata come un fatto costante». Fino ad arrivare a smentire chi pensa che i migranti ci vogliano togliere qualcosa, il lavoro, la pace sociale, addirittura le donne e l’identità del nostro Paese: «Integrazione viene dal latino integer che significa intero. Quindi è un processo che aggiunge qualcosa in modo da rendere intero qualcos’altro». Fabio PolettiRegina CatramboneRaccogliere il mare con un cucchiaino2023 Città Nuovapagine 146 euro 16,90
Per gentile concessione dell’autrice Regina Catrambone e dell’editore Città Nuova pubblichiamo un estratto dal libro Raccogliere il mare con un cucchiaino.Le donne del mareQuando l’alternativa è quella tra il morire di fame e violenza sulla terra degli avi e l’emigrare verso luoghi sconosciuti, tagliando le amatissime radici, molta gente va incontro al proprio destino con dignità e coraggio. Avete mai guardato negli occhi una persona migrante? Avete mai ascoltato la sua storia?Le parole e gli occhi delle donne migranti che ho incontrato nella mia vita hanno per me un valore fondamentale. Donne scomode, che valicano tutte le frontiere, testimoni di disumanità. Le chiamo le donne del mare, anche se molte di loro vengono dai deserti o giungono a noi passando per la terraferma: sono le donne che hanno affrontato i loro destini come maree, contro cui si sono scagliate le sorti impietose di vite difficili, a volte impossibili da credere. Sono donne saccheggiate nell’intimità, impietrite dal dolore, consumate dai lutti, donne che, nonostante tutto, restano fino all’ultimo momento messaggere di speranza e dignità. Credo molto nelle donne, nella loro forza costruttiva, nella loro capacità di rialzarsi e ricominciare: le donne che subiscono la guerra degli uomini, le donne, eroi semplici, senza medaglie, le donne soggetti attivi, costruttrici di pace.FatimaStavo giocando con David sul ponte della nave quando a un certo momento gli ho chiesto: «E tu cosa vuoi fare da grande?». Lui mi ha risposto: «Il supereroe». E allora, insieme all’infermiere della Croce Rossa che era in quel momento con me, abbiamo deciso di realizzare il suo sogno e di vestirlo da supereroe: gli abbiamo infilato due guanti in lattice, un mantello ricavato da una busta di plastica e per un po’ abbiamo giocato ai supereroi, almeno fino a quando non gli ho chiesto: «Ma perché vuoi fare il supereroe?» e David mi ha risposto: «Così posso difendere la mia mamma». «E da chi la vuoi difendere?» gli ho chiesto ancora, e lui mi ha risposto: «Dall’uomo cattivo che viene la notte».Fatima, la mamma di David, mi ha raccontato la sua storia poco dopo. Era partita dalla Libia, dopo aver soggiornato per mesi in uno di quei “lager” in cui i migranti vengono rinchiusi prima di divenire ostaggio degli scafisti. Dalle parole e dallo sguardo di questa donna ho imparato a riconoscere la potenza del male.Fatima aveva passato molti giorni in un dormitorio zeppo di donne e bambini. Alcune donne erano incinte, altre malate, altre così terrorizzate che i loro occhi mettevano paura, sembravano possedute dagli spiriti del male. C’era un solo posto per andare al bagno e spesso, specialmente i bambini e le donne malate, non riuscivano a trattenersi, ad aspettare il loro turno. Così all’interno del dormitorio stagnava un odore insopportabile; delle volte per cercare di dormire un po’ Fatima doveva coprirsi il naso con un fazzoletto. Ma il momento peggiore era la notte.Fatima aveva imparato subito che la notte era il momento più rischioso per tutte le donne lì. Per questo ordinavano ai loro bambini di non muoversi, per questo li minacciavano raccontando loro che se non fossero rimasti al loro fianco sarebbero arrivati dei cani ferocissimi a sbranarli. Quelli che arrivavano, però, non erano cani. Erano molto più feroci. Arrivavano la notte, portando con sé tutto il male del mondo.Alcune donne venivano trascinate fuori. Per nessuna di loro era difficile capire cosa stesse succedendo. Per i loro guardiani, tutte quelle donne erano merce di scambio, oggetti con cui passare il tempo, su cui scommettere e divertirsi. Tutto, di loro, poteva essere mortificato, abusato, comprato o venduto. Lo sguardo di quelle che rientravano nel dormitorio era eloquente ma nessuna di loro voleva conoscere i particolari, come se il fatto di fingere di non sapere le potesse in qualche modo proteggere. Fatima non ci mise molto a capire che non ci sarebbe stato modo di sottrarsi a quel destino.Recluse con i loro bambini, guardate a vista dai carcerieri, non potevano neanche ribellarsi, perché dovevano mascherare le violenze, per proteggere i propri figli, cercare di continuare a dar loro una speranza.E così una notte toccò a Fatima. Non venne portata fuori dal dormitorio. No. Lei no. A lei accadde qualcosa di diverso. Un uomo si avvicinò con passo deciso, scavalcando i corpi delle altre donne stese a terra. Si sdraiò al suo fianco. Alcune delle sue compagne erano ancora sveglie. Nessuna si mosse, nessuna fiatò. L’uomo iniziò a toccarla. A frugare nel suo corpo. Lei non poteva parlare, non poteva piangere, non si poteva muovere, non voleva che il suo bambino si svegliasse. L’uomo continuò a prenderla, a rovistarla. Come se Fatima non fosse un essere umano. Come se non fosse una donna. Una donna come sua madre, sua sorella, sua moglie o sua figlia. Pregò Dio che il suo bambino non si svegliasse. La prima volta pregò. Sapeva che erano in molte a implorarlo. Ma Dio non sempre riesce a esaudire tutte le preghiere…Mentre mi raccontava la sua storia, Fatima cercava di respingere le lacrime, mentre con lo sguardo vigile continuava a osservare il suo bambino che giocava con i volontari della nave. E io non sapevo bene cosa fare. Allora presi le sue mani lunghe e scure, gliele strinsi tra le mie, le sorrisi e la guardai negli occhi. Tentai di rassicurarla.Le dissi, forse mentendo, che ora era tutto finito, le dissi che avrebbe avuto una vita più serena. Le dissi che gli italiani sono brave persone, che li avrebbero accolti e aiutati.Dopo Fatima conobbi altre donne. Capii molte cose. Capii il motivo per cui le migranti che salivano a bordo della nostra nave ci chiedevano, tra le prime cose, i test di gravidanza. Capii anche perché una volta salite a bordo della nave si lasciassero tutte andare a un lungo e profondissimo sonno.© 2023 Città Nuova Editrice