Le grida di Donald Trump contro la “minaccia cinese” fanno parte del passato, recente ma pur sempre passato. Quella che sembrava l’inizio di una Guerra Fredda, nell’Anno Secondo d.c., dopo il Covid, ha preso tutta un’altra strada. Fabio Massimo Parenti, in questo La via cinese Sfida per un pubblico condiviso, pubblicato da Meltemi, traccia il solco del ruolo della Cina nei prossimi anni, in rapporto all’Occidente e agli altri Paesi messi in risalto dalla globalizzazione. Quello dell’autore è uno sguardo privilegiato e di prima mano. Fabio Massimo Parenti, Ph.D. in Geopolitica, geostrategia e geoeconomia, è attualmente professore associato alla China Foreign Affairs University di Pechino, dove insegna International Political Economy, e docente al Lorenzo de’ Medici – The Italian International Institute di Firenze. È inoltre membro del Laboratorio Brics di Eurispes e ricercatore al Central China Economic Region Research Institute (CCERRI). Dalla sua analisi, precisa come una fotografia, emerge come Pechino e la leadership cinese cerchino di perseguire la costruzione di una comunità umana dal futuro condiviso, con un modello win win che vada bene a tutti, senza prevaricazioni, e che a tutti porti benefici economici e sociali. Un modello già sperimentato durante la pandemia, dove la Cina forte nel suo know-how in campo sanitario, è scesa in campo pesantemente con la sua forza trainante, dando sostegno ad oltre 130 Paesi travolti dalle conseguenze del virus, spesso senza nemmeno i mezzi per arginare i nuovi contagi. Fabio PolettiFabio Massimo ParentiLa via cineseSfida per un futuro condiviso2021 Meltemipagine 156 euro 14 e-book euro 9,99

Per gentile concessione dell’autore Fabio Massimo Parenti e dell’editore Meltemi pubblichiamo un estratto dal libro La via cinese.All’alba di questa nuova crisi sistemica legata al Covid-19 stanno emergendo quegli errori e quelle debolezze strutturali cumulate nei decenni precedenti, che sono correlabili al modello politico-economico della globalizzazione neoliberale. Caos comunicativo, frammentazione istituzionale, sottovalutazione e politicizzazione della pandemia da parte delle autorità occidentali hanno fatto impallidire, a nostro svantaggio, gli errori compiuti a dicembre dalle autorità di Wuhan e dell’Hubei nella prima fase di manifestazione dell’epidemia, la cui origine rimane tutt’ora indefinita. Se gli errori cinesi sono stati raddrizzati piuttosto rapidamente, al fine di mettere a punto azioni coordinate, veloci ed efficienti – la Cina sta ritornando gradualmente a una condizione di normalità –, in Occidente invece è stato pagato un prezzo molto alto, anche perché l’esperienza cinese è stata colpevolmente snobbata.Il mutamento dell’ordine liberale mondiale, detto global shift, di cui molti di noi seguono le traiettorie da anni, si sta disvelando anche a coloro i quali sono rimasti ancorati a una visione statica, legata all’egemonia statunitense. Una visione obsoleta, superata dai fatti, già prima della pandemia.La globalizzazione neoliberale è stata un processo ingegnerizzato dall’Occidente a partire dalla controrivoluzione monetarista della fine degli anni Settanta. Decenni di crescente interconnessione, a cui si sono agganciate diverse aree del mondo in modo più o meno vantaggioso, ma che nel contempo hanno acuito le diseguaglianze socioeconomiche e hanno accelerato processi di destabilizzazione: basti pensare, come già accennato, ai cicli sistemici di crisi finanziarie ed economiche negli anni Ottanta (debiti sovrani), Novanta (bancarie, monetarie e debitorie) e Duemila (finanziarie e debitorie) e alle numerose guerre “umanitarie” e cambi di regime tentati o riusciti a nome di una falsa guerra al terrorismo (quest’ultimo ampiamente alimentato e sostenuto in funzione anticinese, antirussa e antiiraniana a fini di dominio strategico). Mantenendo una prospettiva globale, questa crisi sta mettendo a nudo tutti i difetti e le debolezze strutturali accumulate dall’Occidente negli ultimi decenni. È sempre più evidente l’esaurimento della spinta propulsiva della globalizzazione occidentale, cui corrisponde, di converso, la chiara forza costruttiva della globalizzazione con caratteristiche cinesi. Se la prima, sotto il cosiddetto Washington Consensus, ha promosso per decenni processi di liberalizzazione e privatizzazione estesi al livello planetario, la seconda ha proposto e sta praticando più interconnessione tra Stati, attraverso strategie di investimento e di cooperazione volte allo sviluppo di aree depresse, alla stabilizzazione di regioni strategiche e al collegamento più efficiente tra diverse regioni del mondo.Questi due modelli corrono lungo binari differenti e spesso antitetici: unilateralismo versus multilateralismo, approccio allo sviluppo unilineare versus rispetto di diversi percorsi di sviluppo, iper-competizione versus cooperazione-mutuo beneficio, interessi del capitale versus interessi delle società, individualismo versus collettivismo. Idiosincrasie che hanno fatto emergere un’idea alternativa di globalizzazione. Si veda ad esempio il discorso di Xi Jinping a Davos nel 2017, a favore di più interconnessione e cooperazione tra popoli, nel rispetto delle diversità economiche, politiche e culturali.Oggi, sempre più, la globalizzazione neoliberale mostra i suoi limiti. Avendo promosso una crescente riduzione dell’intervento statale in economia (con una spinta alla deregolamentazione dei mercati), essa ha ridotto il ruolo dello Stato stesso a portavoce delle comunità di affari e dei loro interessi particolaristici. Ciò si evince chiaramente soprattutto quando viene messa a confronto con il “socialismo con caratteristiche cinesi” e con l’idea della “costruzione di una comunità umana dal destino condiviso”. Niente a che vedere col darwinismo economico-sociale promosso dal neoliberalismo. Come detto, la storia della globalizzazione neoliberale è stata segnata da crisi sistemiche e guerre umanitarie (in realtà operazioni a sostegno del terrorismo regionale per fini strategici), restituendo l’immagine di una globalizzazione dei mercati e delle guerre assai destabilizzante, fragile e sempre più volatile; processi che hanno mostrato gli esiti più nefasti e destrutturanti a partire dagli anni Novanta. Diversamente, la BRI e l’estensione dell’influenza cinese a livello intercontinentale attiene a una nuova geografia infrastrutturale, di porti, ferrovie, zone industriali, collegamenti digitali e aerei, nonché cooperazione nella ricerca e nella gestione di problemi globali, come quelli sanitari.La pandemia Covid-19 ha mostrato dunque il consolidamento del Beijing Consensus e della globalizzazione con caratteristiche cinesi, rispetto alle più note politiche internazionali legate al Washington Consensus. Difatti, questi due approcci, che, come accennato, hanno traiettorie storiche differenti, si sono riflessi nelle risposte alla pandemia. I Paesi occidentali si sono chiusi, sospendendo Schengen in Europa, bloccando forniture essenziali ai Paesi più colpiti e mostrando una notevole incapacità di gestione della crisi. I casi dei blocchi di forniture da Germania, Repubblica Ceca e Polonia, come il blocco dello spazio aereo ai voli russi, nonché le sanzioni che hanno continuato a gravare su Iran, Cuba e Venezuela, anche in questa fase, sono tutti esempi di mancanza di solidarietà, ove non si può rinvenire alcunché di edificante. Guardando agli Usa, essi non avrebbero comunque potuto fornire aiuti comparabili a quelli cinesi, mancando di un’adeguata capacità produttiva dei materiali necessari. La Cina, al contrario, per prima, ha fornito ogni tipo di sostegno all’Italia e a molti altri Paesi (130), moltiplicando aiuti, donazioni e forniture, oltre a offrire e condividere personale medico, esperienze e informazioni. Alla Cina si sono unite, tra gli altri, Paesi come Cuba, Vietnam e Russia.In termini paradigmatici, economico-politici e culturali, il confronto è tra neoliberalismo e socialismo. In altre parole, la differenza si marca da un lato con il primato degli interessi del capitale e dell’interesse egoistico del singolo, dall’altro con il primato delle società e delle collettività. È il confronto dicotomico tra l’iper-competizione e la cooperazione; l’autodifesa reazionaria e la solidarietà internazionale, il confronto militare e la ricerca di soluzioni condivise e pacifiche. Da parte dei Paesi occidentali constatiamo un deficit di aiuti e solidarietà; ma anche una condizione di debolezza politica e di sofferenza econmica nell’affrontare la pandemia. In tale contesto, sia il Financial Times che il Foreign Affairs, ad esempio, hanno rilevato la necessità di collaborare con la Cina per la gestione della crisi.Al contrario, e irresponsabilmente, l’amministrazione Trump ha alimentato discorsi e pratiche da nuova guerra fredda, usando la carta cinese per scopi elettorali e cercando di creare una coesione interna contro un “nemico” esterno. Ciò nonostante, non stiamo parlando di un fenomeno congiunturale, dato che la rivalità con la Cina è di più lunga data e risale almeno all’inizio degli anni 2000, quando un documento del NIC suggeriva che alcuni Paesi stavano crescendo troppo grazie alla globalizzazione e che l’unico modo per arrestarli sarebbe stata una guerra, oppure la fine della globalizzazione a seguito di una pandemia. Negli ultimi anni, moltissimi documenti della Casa Bianca hanno reiterato questo approccio e la rivalità strategica con la Cina (oltre a Russia, Venezuela, Iran e Corea del Nord). Ciò non toglie che l’ordine mondiale sia già cambiato e avrà bisogno di un Occidente capace di adattamento e flessibilità, in grado di cooperare con la Cina in modo costruttivo, al di fuori della logica della guerra fredda che potrebbe decretare un declino occidentale ancor più traumatico del necessario.© 2021 – Meltemi Press srl & New Star Press co., ltd.