Diverso è un termine in cui ci imbattiamo ogni giorno. A volte usato a sproposito. Diverso è dunque lo straniero, ma pure chi appartiene ad un’altra classe sociale, chi ha una qualche disabilità, chi ha relazioni fuori dallo schema binario uomo donna, chi professa un’altra religione. Ogni diversità ingenera codici comportamentali più o meno diffusi, più o meno accettati. Ma non è sempre stato così. Nel Medioevo diverso era chi credeva in un altro Dio, chi era ebreo o musulmano, marginalizzato dalla società e combattuto in ogni modo. Marina Montesano, docente di Storia medievale presso il Dipartimento di Civiltà antiche e moderne dell’Università di Messina, in questo Ai margini del Medioevo pubblicato da Carocci, va alle radici della cultura dell’alterità. Le crociate, le guerre di religione, che in quei secoli diventano soprattutto macchina di controllo sociale – gli eretici, qualunque cosa siano, finivano al rogo senza tante storie – sono solo il seme acerbo di altre guerre, sociali ed economiche, con cui ci confrontiamo ancora oggi. La religione diventa allora un paravento, un concentrato di valori, il codice identificativo di appartenenza nella contrapposizione tra noi e gli altri, i diversi. Fabio Poletti

Marina Montesano
Ai margini del Medioevo
Storia culturale dell’alterità
2021 Carocci Editore
pagine 272 euro 24

Per gentile concessione dell’autrice Marina Montesano e dell’editore Carocci pubblichiamo un estratto dal libro Ai margini del Medioevo.

L’Europa dei secoli che prendo in considerazione ha visto la costruzione di poteri in cerca di legittimazione: poteri ecclesiastici, da quello papale a quelli vescovili, dagli ordini monastici ai conventuali; poteri non ecclesiastici ma nemmeno definibili come “laici”, quali erano quelli imperiali, sovrani, feudali; il linguaggio che queste istituzioni parlano è sovente di tipo religioso, così come tutto il tema della dissidenza sembra, alla luce delle fonti, ridursi al binomio ortodossia-eresia, anche lì dove evidentemente la posta in gioco è ben diversa. Quella di eresia diviene un’accusa spendibile in situazioni differenti: contro comunità ribelli, contro poteri locali che si vogliono assoggettare, persino contro imperatori e avversari politici; dall’accusa di eresia vediamo nascere, nel corso del Quattrocento, quella di stregoneria, che diverrà comune poi nella prima Età moderna11. Questo ampliamento del concetto di eresia, che arriva a toccare gradualmente ambiti differenti, è un processo interessante da una parte per comprendere il rapporto tra forme di potere e dissensi, dall’altra per individuare il modo in cui le masse sono chiamate a rispondere a input differenti, sviluppandone però anche di propri, come si vede nei disordini che scoppiano nel corso del Trecento: che possono esitare nelle rivolte “popolari”, oppure rivolgersi contro le comunità ebraiche; non sono la stessa cosa per le finalità perseguite, è chiaro, ma tipologicamente sono comunque la manifestazione di un disagio che prende strade differenti: come ha argomentato David Nirenberg, gli attacchi popolari contro gli ebrei alla fine del Duecento avevano come obiettivo primo il governo regio, del quale gli ebrei erano “servi”.
Il fatto che l’Europa del tardo Medioevo ci appaia come un mondo nel quale c’è minore spazio per l’alterità deriva anche da un altro dato che vedremo affermarsi: ossia il processo di esclusione di elementi avvertiti come improduttivi (vagabondi, romanì, gruppi per vari motivi ai margini della società) secondo i criteri della modernizzazione, del prevalere dei mercati, della costruzione degli Stati nazionali, ossia di quelle dinamiche che caratterizzano l’età successiva a quella presa in considerazione. Il Quattrocento fa ancora in tempo a restare affascinato dalle merveilles dei romanì itineranti, ma presto relegherà la categoria al regno dell’esotico, preferendo mettersi al riparo con la politica dei “bandi”. È un processo che culmina nell’Ottocento con la costruzione del sistema carcerario e manicomiale, e con la medicalizzazione dell’alterità della quale parlava Michel Foucault. Nell’insieme allora, più che di una “società persecutoria”, è opportuno parlare di una cultura europea che costruisce la propria identità intorno ad alcuni capisaldi fra i quali l’uniformità religiosa figura come essenziale.
Sotto il profilo dell’identità religiosa, non si può dire che l’Europa moderna si sia evitata «dolori oltre il segno»: lo scempio delle guerre di religione, che sembrano evocate così bene dall’apocalittico Trionfo della Morte di Pieter Bruegel, è stato ben peggiore per le conseguenze mortifere rispetto a ciò che hanno vissuto i secoli medievali. E tuttavia, con l’accentuarsi dei nazionalismi man mano che ci si avvicina alla contemporaneità, sono anche parse guerre di un passato remoto, magari sostituito da interessi diversi, quali quelli politici ed economici, che pure possono dar vita a catastrofi, ma che tendiamo a pensare come più “razionali”. Almeno, tali sono sembrate per lungo tempo a molte generazioni.
Sennonché, in anni relativamente recenti le cose sono cambiate. La guerra scoppiata nei Balcani all’inizio degli anni Novanta del Novecento ha reso tristemente familiare l’espressione “pulizia etnica”. A che cosa esattamente corrisponda l’ethnos, tradizionalmente inteso come “comunità caratterizzata da omogeneità di lingua, cultura e storia”, è cosa discussa e discutibile; oggi è opinione comune, almeno in ambito accademico, che sia opportuno togliere l’elemento oggettivante dal discorso e sostituirlo con quello della percezione, per cui un’etnia è una comunità che percepisce sé stessa come omogenea in base a una serie di elementi culturali, religiosi, linguistici e così via. Dal punto di vista del linguaggio, serbi, croati e bosniaci musulmani, o bosgnacchi, parlano varianti della stessa lingua, sono slavi con origine comune e con una presenza geografica costante sul medesimo territorio, condividono le stesse abitudini alimentari, il loro dna non presenta variazioni significative fra un gruppo e l’altro, nonostante durante i conflitti sorti nel Novecento si siano affermate teorie strampalate, come quella che sosteneva per i bosgnacchi un’origine gota, dunque differente da quella dei vicini; origine gota che tuttavia negli anni Quaranta gli ustasha croati avevano rivendicato per sé stessi – in positivo – al fine di distinguersi come puri ariani di origine germanica fra gli slavi. In realtà, l’unico elemento differenziante fra i tre gruppi è dato dalla confessione religiosa: quella di serbi e croati si è formata per le spinte evangelizzatrici contrastanti e concorrenti di Roma e di Costantinopoli; quella dei bosgnacchi durante il dominio ottomano nella regione; non frutto di immigrazioni dall’esterno o di conversioni forzate, ma spontanea e secondo quanto ne sappiamo concomitante soprattutto con i periodi in cui l’impero turco dominava i suoi avversari: per convenienza, per ammirazione del vincitore, per convinzione. Semmai le sole presenze frutto di immigrazione nell’area vengono da coloro che, essendo musulmani, dopo l’arretramento della presenza ottomana in Europa in seguito al trattato di Karlowitz del 1699, lasciavano Ungheria, Croazia, Dalmazia e Slavonia ormai in mani cristiane e si rifugiavano all’interno dei Balcani.

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