Per questa pausa estiva, abbiamo selezionato le storie più belle dall’archivio di NuoveRadici, che ripubblicheremo nelle prossime settimane. Il racconto di Omar Abdulcadir è stato scritto nell’ottobre 2018.

Sui documenti risulta che ho settant’anni, ma non so esattamente quando sono nato. Forse ne ho solo sessantacinque. In Africa la data di nascita delle persone della mia generazione non è una cosa certa. Le scuole, fino alle superiori, le ho fatte in Somalia, al mio Paese. Scuola italiana con tutto il percorso in lingua italiana. Venire in Italia per me era una cosa naturale. Al liceo Leonardo da Vinci che frequentavo allora, in classe c’erano quindici studenti italiani, figli di esperti professionisti che lavoravano in Somalia All’inizio in realtà volevo andare a studiare negli Stati Uniti. È stato mio padre ad insistere perché proseguissi il percorso di studi in Italia. Le borse di studio venivano date per nepotismo, non per merito. Mio padre, che pure era un direttore generale del ministero della Pubblica Istruzione, anche se avesse potuto si è sempre rifiutato di agevolarmi: «Mio figlio deve fare da solo».

Così mi ha mantenuto per quattro anni in Italia. Quando sono arrivato avevo in tasca 300 mila lire. Mi sono comperato un cappotto e ho pagato le tasse universitarie. Avevo una camera in un appartamento con altri studenti. Per mantenermi ho fatto di tutto. Il lavapiatti e le estrazioni del lotto alla Casa del Popolo di Firenze.

Poi ho conosciuto quella che sarebbe diventata mia moglie, una ragazza calabrese anche lei studentessa di Medicina. Ci siamo sostenuti a vicenda, nello studio e nella vita. Mi ha dato due splendidi figli educati ai valori civili, sono due bravissimi medici che lavorano con passione e onestà.

A quell’epoca sognavo ancora di tornare in Africa. Ma era impossibile, c’era la guerra civile. Dopo la laurea sono riuscito ad entrare all’ospedale di Careggi a Firenze. Ma prima ho fatto la trafila di tutti con tante guardie mediche di giorno e di notte. Con la specializzazione in Ginecologia facevo ecografie e diagnosi prenatale. Negli anni Ottanta sono iniziate ad arrivare in ospedale le prime donne con mutilazioni dei genitali femminili. I medici italiani non erano preparati a questo fenomeno e non avevano mai visto una donna sottoposta a infibulazione. Cominciai ad occuparmene. Fu aperto dalla Regione Toscana il primo centro regionale di riferimento per prevenire la pratica e migliorare la vita delle donne sottoposte a mutilazione genitale. Volevo dare una vita normale, anche sessuale, a queste donne. Era prassi allora sottoporre le donne gravide a taglio cesareo. Ma questo avrebbe impedito loro di avere tanti figli, desiderio di molte donne africane.

Non facevo solo il medico ero diventato anche un mediatore culturale. Davamo assistenza sanitaria ai migranti. Dovevamo far capire loro di avere fiducia negli ospedali. Avevano paura di essere denunciati.

All’inizio degli anni Duemila abbiamo proposto un rito simbolico alternativo per salvare alcune bambine che nell’immediato rischiavano di essere sottoposte a mutilazione. Si metteva una pomata anestetica sulla zona clitoridea e poi con un ago da insulina si faceva una piccola puntura per far uscire una goccia di sangue o anche niente. Era un atto simbolico per salvaguardare la tradizione ma non infliggere alcuna mutilazione alle donne. Ci fu un dibattito molto acceso su questo con fraintendimento dello scopo della proposta e informazione distorta. Finalmente dopo tanti anni anche in Africa la gente sta capendo e applica sempre più spesso rituali alternativi.

Ho eseguito più di trecento deinfubulazioni. Ne ho parlato in tutto il mondo. Sono stato invitato a parlare anche al Parlamento inglese. Adesso sono in pensione ma mi occupo di prevenzione oncologica del cancro della cervice e della mammella per donne immigrate con un progetto triennale promosso dalla Regione Toscana, dall’ISPRO, Istituto per lo studio, la prevenzione e la rete oncologica e dalla LILT, la Lega italiana per la lotta contro i tumori.

Non ho abbandonato l’idea di tornare in Africa. Sto sostenendo l’università somala con gemellaggi con le università italiane. Le mie radici sono ancora lì.

Ho quindici fratelli. Mio padre era un capo tribù. Ma per anni la Somalia non è stata un Paese sicuro. C’era la guerra civile. Ammazzavano gli intellettuali. Hanno ucciso radiologi e ginecologi. Ma io sono nato in Somalia, amo la mia terra d’origine, anche se la mia cultura è italiana e sono cittadino italiano fedele alla Repubblica italiana. All’inizio in Italia eravamo pochi stranieri. Le cose sono andate male quando hanno iniziato ad andare male anche per gli italiani.

Chi non era razzista, lo è diventato. C’è un brutto vento che soffia in Europa. Sono convinto che chi ha una cultura, ha studiato, ha un lavoro, è immune a queste cose. Il razzismo è frutto della situazione economica che sdogana ideologie razziste in una guerra tra poveri. Nella mia professione non ho incontrato episodi di razzismo o forse non me ne sono neanche accorto preso come ero dal mio lavoro e dalla riconoscenza di tutte le mie pazienti di ogni cultura e colore di pelle.

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