Marco Wong, 56 anni, bolognese e cinese, ingegnere elettronico, un passato da top manager prima di prendere in mano l’azienda di famiglia di import export di cibo da tutto il mondo, consigliere comunale di una lista di centrosinistra a Prato, guarda alla politica e dice che il nostro Paese non è pronto: «I modelli di inclusione sociale degli stranieri di molti Paesi europei da noi non esistono. In Italia c’è un non metodo. La situazione è anarchica. A destra si guarda ai processi migratori come una cosa da evitare. A sinistra c’è molta retorica buonista. Il dibattito alla fine è fagocitato dalle notizie degli sbarchi che sono oramai un fenomeno marginale. Si fa sempre molta confusione: un conto è l’accoglienza, un’altra cosa è l’integrazione».

Come è arrivata la sua famiglia in Italia?

«Arrivarono prima i miei nonni negli anni Cinquanta. In Olanda e poi in Italia. Poi vennero i miei genitori. All’inizio artigiani e commercianti nella pelletteria poi nel commercio degli alimentari da tutto il mondo».

Poi nasce lei…

«A Bologna ma poi la mia famiglia si trasferisce a Firenze dove faccio le elementari.

C’è un po’ di provincialismo. Suscito curiosità. Una curiosità innocente. Negli Anni Settanta mi chiedevano se ero vietnamita o adottato. All’inizio degli Anni Ottanta chiedo la cittadinanza italiana. Era una situazione assolutamente nuova.

I soliti intoppi burocratici. Ricevo anche la cartolina per la leva. Mi presento e il giorno dopo mi dicono che siccome non ero cittadino italiano non dovevo fare il militare».

Lei ha lavorato molto da top manager all’estero per grandi gruppi industriali italiani…

«Anche in Cina sì. Avevo iniziato a studiare il cinese a 16 anni. Come straniero parlo bene il cinese. Come cinese diciamo un po’ così. Quando avevo incontri di lavoro in Cina dopo un po’ che parlavamo si accorgevano che non ero cinese».

Fu allora che decisi di farmi crescere la barba. In Cina ce l’hanno gli artisti. Agli artisti si permettono tutte le stranezze.

Italia, Cina…

«Straniero ovunque. Solo in Perù dove ho lavorato per diversi anni ero perfettamente considerato uno straniero come tanti altri».

Lei ha lavorato molto all’estero poi è tornato in Italia. Ha trovato grandi cambiamenti?

«Sono tornato definitivamente in Italia nel 2002. Ho trovato la situazione peggiorata. Molti pregiudizi negativi contro gli stranieri. Molti stereotipi anche contro i cinesi. La solita storia dei morti che spariscono… È anche per questo che a un certo punto inizia il mio impegno sociale che poi diventa anche politico. A maggio mi candido nella lista del sindaco Matteo Biffoni e vengo eletto consigliere comunale».

Oggi ce ne sono tanti. Ma spesso hanno ruoli marginali.

«Dipende dalle situazioni. Gli stranieri vengono spesso legati a competenze dovute alle loro origini. Gli si chiede in politica di occuparsi di immigrati, senza alcun riconoscimento delle competenze professionali. Un architetto anche se di origini straniere potrebbe fare benissimo l’assessore all’urbanistica… Invece c’è questa tendenza a relegare lo straniero a figurina sullo sfondo».

Diritto di cittadinanza, diritto di voto, sono temi su cui la politica ha discusso in questi anni senza passi in avanti. Crede che sia ancora troppo presto?

«Evidentemente i tempi non sono maturi. Ma ci sono stati degli errori. Si è chiamato ius soli una cosa che era già ius culturae. Per come è finita, per me è stata una cocente delusione dopo tantissimi compromessi al ribasso. Penso anche al voto per gli stranieri. Siamo molto indietro rispetto ad altri Paesi europei. Da noi viene considerato un argomento tabù».

Non è solo una questione di tempo? In Gran Bretagna cinquanta anni fa c’erano gli stessi problemi. Oggi a Londra c’è un sindaco di origini pakistane e musulmane…

«La Gran Bretagna ha un programma di inclusione sociale. Anche se poi ci sono ancora i ghetti per gli stranieri alla periferia di Londra. Il problema è che da noi non c’è nemmeno un metodo. La destra non vuole gli stranieri. A sinistra c’è la retorica buonista».

A Prato in queste settimane si è parlato molto di un conflitto in aziende di proprietà cinese con i lavoratori pakistani che protestavano per le condizioni di lavoro. Si fa così in fretta a dimenticare da dove si viene?

«Una volta c’erano piccole imprese che davano lavoro alla famiglia e poi ai connazionali. Quando le aziende si ingrandiscono e ci si rivolge ad altra manodopera si creano le incomprensioni. Mancano i valori condivisi. Bisogna far capire agli imprenditori che il rispetto delle regole è importante non solo perché c’è la legge ma per la convivenza civile. Queste situazioni di conflitto le vediamo anche tra prime e seconde generazioni. I giovani oggi non vogliono solo lavorare. Pensano anche ad altre cose della vita. Molte volte queste situazioni spiazzano i genitori».

E la sua famiglia? I suoi figli? Le sue radici?

«Mia moglie è cinese. Un figlio è nato a Roma, l’altro a Pechino. In casa mia moglie parla cinese, io italiano. La questione delle radici è una cosa che mi ha assillato tanto. Anche perché dovevo sottostare alle solite domande: “Se scoppia la guerra tra l’Italia e la Cina con chi stai?”, oppure “Per chi tifi quando c’è la partita Italia-Cina?”.

Alla fine il problema viene posto male. Una identità non esclude l’altra. Sono un ingegnere e questa è una cosa che ha formato la mia identità.

Poi ho l’identità del motociclista perché mi piace andare in moto e ho anche il giubbotto di pelle. Si parla sempre di identità come esclusione. Invece come esseri umani siamo poliedrici»