È passato quasi un anno dalla nascita di NRW. Ed è ora di fare un bilancio, ma anche una festa.

Premessa. Popo tanti anni passati a fare inchieste e libri, ho pensato che fosse arrivato il momento di provare a creare un progetto narrativo che non fosse mainstream sulle attuali implicazioni del fenomeno migratorio. E, grazie al sostegno di amici e colleghi, con un team quasi esclusivamente femminile, ho pensato fosse giusto guardare e scavare in un’altra direzione.

E far emergere il potenziale inespresso delle nuove generazioni di italiani che ancora, quando per caso finiscono sulla copertina di un giornale, sono rappresentati dai cliché patinati. Una volta uscite dal porto, issate le vele, abbiamo scoperto fra le pieghe della realtà cosa si celava dietro la crescita e la graduale ma costante emersione dall’anonimato dei figli dell’immigrazione in Italia e in Europa. Eccellenze, creatività, innovazione. In due parole: intelligenza culturale.

Nota a margine. Ci sono stati momenti travagliati in cui mi sono chiesta se stavo facendo la cosa giusta perché scavalcare i muri della pigrizia intellettuale, propria e altrui, non è un video game. Soprattutto in un Paese che quando si guarda allo specchio vede sempre la stessa immagine riflessa.

Ero stanca di vivere il giorno della marmotta. E leggere dati, ricerche, indagini che riguardavano solo migranti, che vanno accolti con una politica pragmatica, ci mancherebbe, ma rappresentano pur sempre una minoranza. E stufa di assistere a un dibattito puerile su sbarchi sì/sbarchi no, utile solo per aumentare consensi fra i sovranisti. E ora che la loro crescita demografica, oltre che culturale (dimenticate le semplificazioni errate della serie “ci pagano le nostre pensioni”) è consistente; ora che nelle arti e nei nuovi mestieri ci sono loro che rappresentano il cambiamento che condiziona il nostro stile di vita e contagia anche il nostro modo di pensare; migliaia di giovani adulti dalle doppie radici ci stanno costringendo a ripensare le nostre radici. Grazie a una sequela di rimescolamenti culturali.

Bilancio. In un anno abbiamo fatto tante, forse troppe cose. Abbiamo creato una community, con numerosi partner. Raggiunto lettori che ancora pensavano gli immigrati come un magma indistinto di mano d’opera o, al contrario, una minaccia alle nostre precarie certezze e spesso siamo anche riuscite a modificare la loro percezione.

Con progetti, workshop, eventi, incontri e una continua ricerca giornalistica ( e molta pazienza) siamo riuscite a far emergere quel cambiamento che era lì da vedere e toccare con mano: bastava il desiderio di uscire dalla comfort zone.

A un anno di distanza siamo sempre più sommerse da stimoli, suggestioni, visioni, storie. Persino troppe per un piccolo team. È giusto parlare di muri da abbattere in un vecchio continente condizionato dalla paura, ma la nostra sfida resta sempre identica: abbattere gli stereotipi che impediscono di vedere le trasformazioni profonde. Ricordo ancora la mia grassa risata, quando oltre un anno mezzo fa un ragazzo di origini maghrebine un po’ nervoso, per insultarmi mi disse “Torna a casa tua”. E capendo che anche lui aveva introiettato lo slogan populista, ho compreso quanta sarebbe stata lunga la strada per cambiare la rotta della percezione alterata di un Paese inceppato in una pericolosa e dannosa semplificazione.

Conclusione provvisoria. La nostra strada sta diventando giorno dopo giorno un’autostrada. Abbiamo deciso di festeggiare il nostro primo anno di vita con una serata di fundraising: Integrazioni clandestine. Usando un apparente ossimoro perché accogliere è facile, integrare è maledettamente complicato.

Nella nostra community ci sono partner editoriali e associazioni interculturali, nate nel terzo millennio che hanno innescato un dibattito intellettuale effervescente. Sulla piattaforma di storielibere.fm, ormai seguitissima, si può ascoltare il nostro podcast Radici, un racconto sui nuovi italiani ispirato ai nostri contenuti. Alla festa del nostro primo compleanno, il 2 dicembre prossimo, abbiamo volutamente messo insieme suggestioni diverse per rimarcare quel rimescolamento culturale che, in Paesi più avanzati e con un’immigrazione molto più datata, si definisce melting pot.

Al Samarkand, nel primo ristorante afghano di Milano (i detrattori della cucina etnica si redimeranno quando vedranno l’irresistibile menù Sapori sulla Via della Seta) fondato da un gruppo di artisti rifugiati scappati dai talebani, con storie di dolore e di riscossa, ascolteremo le potenti melodie mediterranee del trombettista Raffaele Kohler e un breve intervento visivo del celebre make up artist Stefano Anselmo sulla bellezza. Perché le integrazioni rimaste sempre sullo sfondo, ancora clandestine, sono invece un’evoluzione naturale con cui fare i conti per poter guardare il futuro. Fidatevi.

Massimo De Donno di Genio in 21 Giorni: «Il mio metodo è utile a chiunque, anche a chi guarda alla diversità come a uno steccato»

Massimo De Donno, autore di Genio in 21 Giorni e formatore, ci spiega in che modo il suo metodo di apprendimento può essere veicolo di integrazione.

L’amore per l’Africa di Stefano Anselmo, il make up artist delle celebrità

Ha curato l’immagine di icone come Mina e Vasco Rossi, studioso di costumi africani, nel 2003 ha tenuto un seminario allo Iulm. Il 2 dicembre Stefano Anselmo parteciperà a “Integrazioni clandestine”, serata a base di cibo, musica e bellezza per festeggiare il primo anno di NRW. Di Fabio Poletti.

Afroitaliano #1

Il suo lavoro di Junior manager lo ha portato nel Paese dei suoi genitori: il Senegal. La prima puntata del racconto di Omar Sene.

La variabile africana

Il long read di questa settimana è tratto da La variabile africana (Egea, 2019), il nuovo libro di Raffaele Masto. Un’analisi accurata del saccheggio delle risorse di un intero continente.

Storia di un quadro: l’omicidio di Alina dipinto da Aleksandra Phillips

Sabato 16 a Venezia si è tenuta la presentazione della mostra mostra “Art against violence Vitaru”, con gli interventi delle artiste, di avvocati e psicologi. La storia dell’avvocata Aleksandra Phillips e del suo quadro. Di Margherita De Gasperis.