Sarà stata anche una bella abissina, la faccetta nera della canzone di Carlo Buti, hit dell’Italia fascista e coloniale, ma questo non ha impedito all’esercito e alle camicie nere di compiere ogni nefandezza. Si sa di stupri, di fucilazioni e torture di massa e di uso del gas nervino, per piegare la resistenza ma pure la popolazione inerme schiacciata dagli invasori alla ricerca di un posto al sole africano, scimmiottando le grandi potenze. Di quell’epopea che ha radici anche nell’Italia liberale del secolo prima, fanno un ampio racconto Valeria Deplano e Alessandro Pes in questa Storia del colonialismo italiano pubblicato da Carocci editore. Valeria Deplano e Alessandro Pes sono professori associati di Storia contemporanea all’Università degli Studi di Cagliari. Il colonialismo si è intrecciato con la storia d’Italia dall’Ottocento alla Seconda guerra mondiale e ha proiettato la sua ombra anche nel periodo repubblicano, fino ai giorni nostri. Muovendo dal più recente dibattito storiografico, il volume ricostruisce per la prima volta in maniera sistematica e sintetica la storia dell’espansionismo italiano in Africa in età liberale e durante il ventennio fascista e ripercorre le vicende delle sue eredità e implicazioni nell’Italia del secondo Novecento e del XXI secolo. Si raccontano non solo i progetti politici, le relazioni diplomatiche, le operazioni militari, le violenze dell’occupazione, le leggi razziste, ma anche i movimenti di persone da e per l’Africa e il modo con cui la scuola, i libri, i film, la scienza e i monumenti hanno reso possibile l’espansione, contribuendo a costruire immaginari che influenzano ancora oggi le vite di milioni di donne e di uomini. Fabio Poletti
Valeria Deplano Alessandro Pes
Storia del colonialismo italiano
Politica, cultura e memoria dall’età liberale ai nostri giorni
2024 Carocci editore
pagine 230 euro 19
Per gentile concessione degli autori Valeria Deplano e Alessandro Pes e dell’editore Carocci pubblichiamo un estratto dal libro Storia del colonialismo italiano
L’episodio più eclatante, che dimostrò la fragilità di una sovranità italiana sull’Etiopia, avvenne il 19 febbraio 1937. In quel giorno Mogus Asghedom e Abraham Debotch, etiopici di origine eritrea, compirono un attentato contro il viceré Rodolfo Graziani, al quale seguì una violenta e sanguinosa repressione da parte italiana, con la popolazione etiopica di Addis Abeba che per i tre giorni successivi all’attentato fu fatta oggetto di uccisioni som marie da parte dei militari e dei civili italiani.
L’attentato si svolse durante un evento pubblico voluto da Graziani per la distribuzione di 500 talleri alla popolazione indigente della capitale. Con il viceré e la folla riuniti nel piccolo ghebì, gli attentatori lanciarono verso le autorità italiane alcune bombe a mano che uccisero sette persone e ne ferirono alcune decine, tra cui anche Rodolfo Graziani. All’esplosione seguì una immediata reazione degli italiani che spararono sulla folla uccidendo e ferendo un numero imprecisato di persone. La reazione italiana non si concluse nei minuti immediatamente successivi l’attentato: nei tre giorni che seguirono Addis Abeba fu messa a ferro e
fuoco da militari e civili italiani che diedero vita a una “caccia all’etiopico”. Le stime sul numero di vittime dell’eccidio di Addis Abeba variano a seconda delle fonti; una stima attendibile parla di circa 3.000 morti. Miliziani e civili italiani, riunitisi in bande, diedero fuoco alle case della popolazione locale, uccidendo e ferendo chi si trovava per strada. Una prova di quanto la strage di Addis Abeba e la sua efferatezza abbiano segnato la società etiopica è data dal fatto che i giorni dal 19 al 21 febbraio vengono tuttora ricordati nel calendario civile con la ricorrenza dello Yekatit 12 (corrispondente del 19 febbraio nel calendario etiopico) e con un obelisco che domina una delle piazze principali di Addis Abeba, la Yekatit 12 adebabay. La rappresaglia italiana continuò anche dopo il 21 febbraio e oltre i confini della capitale dell’aoi; in particolare si concentrò nelle regioni dello Scioa e dell’Amara.
Il culmine della rappresaglia italiana si concretizzò nel maggio 1937 con l’attacco italiano a Debre Libanos, un villaggio sacro, sede di uno dei più importanti monasteri della Chiesa copta, situato a un centinaio di chilometri a nord di Addis Abeba. Secondo le informazioni raccolte
da Rodolfo Graziani, i due autori dell’attentato del 19 febbraio, fuggiti
dalla capitale si erano nascosti nel locale monastero, con il supporto dell’élite religiosa copta. Le autorità italiane, convinte già da tempo che la Chiesa copta fosse uno dei più acerrimi nemici della sovranità italiana nel paese, decise di attaccare Debre Libanos il 20 maggio, data della più importante ricorrenza religiosa per il monastero. Dal mese di marzo, Graziani e le gerarchie italiane pianificarono la strage nei dettagli; il comando delle operazioni fu affidato al generale Pietro Maletti, che nella settimana precedente compì una serie di rastrellamenti durante i quali vennero fucilati i monaci del convento di Gultenié Ghedem Micael. In quegli stessi giorni Graziani telegrafò a Maletti di avere le prove che il clero di Debre Libanos fosse legato agli attentatori e di procedere all’esecuzione sommaria di tutti i monaci. Nei giorni tra il 20 e il 29 maggio Maletti e i suoi uomini procedettero all’uccisione di circa 2.000 tra monaci e preti che erano stati rastrellati e concentrati in un campo vicino al villaggio di Ficcè.
Le dinamiche della strage di Debre Libanos dimostravano la pianificazione da parte italiana del progetto di eliminazione dall’Etiopia dell’élite politica e religiosa; un disegno che dopo l’attentato a Rodolfo Graziani prese sempre più le forme della deportazione, una pratica utilizzata già in precedenza dalla politica coloniale italiana. Tra il marzo e il dicembre 1937 quasi quattrocento dignitari etiopici furono deportati in campi della penisola, soprattutto in quelli dell’Asinara, di Longobucco, di Mercogliano, di Ponza e di Torre del Greco. Altre migliaia di etiopici ritenuti di rango inferiore vennero deportati nei campi cani, in particolare in quelli di Danane e di Nocra. L’obiettivo di questa politica era quello di sradicare completamente la classe dirigente etiopica dal territorio dell’aoi per impedirle qualunque possibilità di contatto con la popolazione; per questo motivo la deportazione non colpì esclusivamente capi locali apertamente ostili all’occupazione italiana ma anche figure di notabili che avevano collaborato con il governo dell’aoi.
Le stragi compiute dagli italiani come reazione all’attentato al viceré Rodolfo Graziani, pianificate con l’obiettivo di stroncare la resistenza etiopica, non sortirono l’effetto voluto. Dopo il periodo tra il febbraio e il maggio 1937, caratterizzato da un aperto conflitto degli italiani nei confronti dei notabili e del clero etiopici, tacciati di essere alla guida della resistenza contro l’autorità italiana, l’opposizione all’occupazione non
scemò, ma anzi il numero dei resistenti aumentò anche a causa delle efferatezze compiute durante le rappresaglie. Le azioni della resistenza etiopica, almeno fino al giugno 1940, si concretizzarono in numerosissimi e brevi attacchi, prevalentemente in territori extraurbani. Sfuggendo allo scontro frontale, i resistenti perseguivano l’obiettivo di minare il morale di militari e civili italiani, cercando di farli sentire insicuri nei loro spostamenti all’interno del territorio dell’impero. Tra l’estate del 1937 e quella del 1940 l’atteggiamento italiano verso la resistenza etiopica non fu costante; una parziale svolta si registrò ad esempio con il governatorato di Amedeo di Savoia duca d’Aosta, il quale divenne viceré alla fine del 1937. Il profilo del duca d’Aosta si differenziava in maniera netta da quello del suo predecessore: militare di carriera, partecipò anche alla “pacificazione” della Libia, ma il suo background coloniale si era definito precedentemente, durante gli studi universitari, conclusisi con una tesi sul colonialismo. Successivamente alla sua nomina si attenuarono gli effetti della repressione nei confronti della popolazione civile, ma continuarono le operazioni di polizia coloniale contro i resistenti e la società dell’aoi mantenne una struttura segregazionista.
L’ingresso dell’Italia nella Seconda guerra mondiale e l’apertura dei fronti di guerra in Africa modificarono radicalmente la situazione interna dell’aoi e le dinamiche di conflitto tra le autorità italiane e la resistenza etiopica. Quest’ultima iniziò a ricevere aiuti militari dagli Alleati e poté proseguire il conflitto meglio attrezzata. Dall’altra parte, gli italiani non dovevano più preoccuparsi soltanto della resistenza etiopica e degli assalti sulle rotte che collegavano le città dell’impero, ma anche degli attacchi provenienti dall’esterno, e in particolare dalle colonie britanniche che in parte circondavano il perimetro dell’aoi. A partire dal gennaio 1941 la resistenza etiopica partecipò all’attacco britannico all’aoi, che si concretizzò con due attacchi dal Sudan verso l’Eritrea e il Goggiam, e da un attacco dal Kenya verso la Somalia. Il 5 maggio 1941 l’ingresso ad Addis Abeba dei resistenti etiopici, e insieme a loro di Haile Selassie, segnava non soltanto la fine dell’aoi ma anche la fine di un conflitto che, per loro, era durato cinque anni.
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