C’è l’Ucraina oggi piegata dalla guerra. E ci sono gli ucraini di quasi quarant’anni fa, smarriti e impoveriti dopo il crollo del Muro e il dissolvimento dell’impero. Per molti di loro non c’era che un’alternativa, scappare ad Occidente, il diavolo secondo la propaganda comunista, soprattutto per scappare dalla fame. Quegli anni, sono ricostruiti da Stefania Nardini in questo L’ultimo treno da Kiev, pubblicato da Les Flâneurs edizioni. Al centro della storia c’è Irina, una badante ucraina ex professoressa di Lettere. Siamo negli anni di Leonid Kučma, il primo presidente dell’Ucraina indipendente, un Paese allo sbando dove i salari sono un miraggio e la corruzione dilaga a tutti i livelli. Madre di una figlia a cui vorrebbe donare un futuro diverso, per procurarsi un passaporto e un viaggio in Italia Irina dovrà passare attraverso un perverso sistema in cui a farla da padrone sono come sempre le mafie. Le hanno promesso un lavoro da domestica. È il prezzo da pagare dopo il crollo del Muro di Berlino. L’Ucraina del post comunismo è terra di nessuno, un Eldorado per il capitalismo selvaggio. Irina arriverà da clandestina, in un’Italia dove quelle come lei sono un supporto indispensabile per molte famiglie. L’incontro con Rosa, giornalista femminista e sua datrice di lavoro, la metterà di fronte a un mondo sconosciuto che la storia le ha omesso. La sua rigidità sovietica sopravviverà a questo impatto? Chi sceglierà di diventare Irina: una madre della patria, come voleva la dittatura, o una figlia della libertà? Un dilemma che negli anni ha accompagnato ogni migrazione di massa, dove alla fine chi lascia il Paese d’origine perde un ruolo sociale, la cultura degli avi e alla fine le proprie radici. Fabio Poletti

Stefania Nardini

L’ultimo treno da Kiev
2023 Les Flâneurs edizioni
pagine 158 euro 15

Per gentile concessione dell’autrice Stefania Nardini e di Les Flâneurs edizioni pubblichiamo un estratto dal libro L’ultimo treno da Kiev

Non conoscevo la libertà.
Il grande Muro era crollato e tutto era cambiato.
Il nuovo stava cedendo il passo alla notte dei fantasmi. Una notte lunga. Che nessuno immaginava.
Il Muro era crollato. Come era crollato qualcosa in me. Era crollata la mia storia con Nicolaj. Il padre di mia figlia. Stava crollando questo paese incapace di restituire speranza. La libertà. L’avevo immaginata come un vento di primavera. Invece era inafferrabile. Difficile da identificare.
Volevo sperare. Ma non sapevo come.
Intorno a me immagini disperate. Disarmanti.
Non avevamo perso né gloria né ricchezza. Avevamo perso il futuro.
Che libertà è se non si può sognare?
Non c’era alba a consolarci. Solo amori sbiaditi in vite fallite.
La mia laurea in Letteratura ucraina: cosa ne avrei fatto?
Ogni giorno mi chiedevo se l’Ucraina esisteva davvero. O se piuttosto non era un’invenzione, la grande necropoli di un passato devastato dall’omologazione e dagli orrori di una dittatura. Ci avevano puniti con la fame, con i milioni di morti seminati dalla grande carestia, ci avevano strappato le parole, con una lingua che non doveva essere più la nostra.
Io sono nata nella dittatura. Quando per un tozzo di pane si facevano file interminabili. Quando eravamo pezzi di carne umana proprietà di un regime.
Quando il Muro crollò provai a immaginare un nuovo mondo. Ma la realtà non faceva che restituirmi incertezze. Una vita sull’orlo di un precipizio.
Forse per questo decisi di prendere quel treno per Kiev.
Avevo bisogno di capire come poter ricominciare. Di aggrapparmi a un punto per non scivolare.
Kiev era la mia gioventù, gli anni dell’Università.
E quando l’unica certezza è il passato, forse è da lì che bisogna ripartire.
Nonostante la polvere delle macerie mi stesse devastando l’anima.
Così decisi.
Un viaggio lungo, ma indispensabile.
Andata e ritorno. Comprai il biglietto per partire l’indomani.
Ormai non insegnavo più al liceo di Truskavets. Gogol, Ukraïnka, Šhevchenko: addio!
Una nidiata di ragazzini della scuola materna, l’occhio vigile e un sorriso stampato: quelli erano i miei giorni in cam- bio di poche grivne.
La letteratura non era pane per la mia Oksana. Noi insegnanti non ricevevamo lo stipendio da troppo tempo, e la mia piccola doveva crescere. Aveva diritto alla sua scodella di zuppa.
Nicolaj non c’era. Non esisteva. L’avevo lasciato io. Vero.
Conosceva i problemi che ci affliggevano. Ma se ne infischiava. Vodka e puttane. Quella la sua regola per sopravvivere.
La mattina in cui decisi di andare a Kiev, con i miei avevo usato un pretesto.
Avevo detto che dovevo ritirare un certificato di laurea e che mi sarei fermata una notte da mia zia Melania.
In realtà il motivo era un altro. Volevo andarmene. Emigrare.
Ci eravamo guadagnati quella libertà con il crollo del Muro.
Avrei venduto le mie braccia. Avevo rinunciato al valore della mia testa.
Quando lasciai Kiev, all’epoca dell’Università, c’era ancora il comunismo. Mi ero laureata e dovevo rientrare a Truska- vets per il mio primo incarico. Avrei lavorato: professoressa di lettere.
Era passato tanto tempo. O forse no? L’avevo persa, la cognizione del tempo. Tutto era cambiato o precipitato. Avevamo ottenuto la libertà pagando con la miseria il prezzo del trapasso.
Non sapevo cosa mi avrebbe riservato Kiev. Ma non importava.
Quei giorni tutti uguali, tra marmocchi e pannolini, mi logoravano. E il peso della sconfitta faceva ancor più male della povertà.
Eravamo un popolo di sconfitti. Rintanati nella solitudine delle nostre cicatrici.
Sapevo bene cosa dovevo fare a Kiev. In tasca avevo un indirizzo.
Era di un’agenzia, di quelle che trovano lavoro. Lontano e clandestino, certo, ma pur sempre un lavoro.
L’Occidente era l’unica via d’uscita. E il mio un sacrificio inevitabile. Avevo solo il mio dolore da mettere in gioco. Quel dolore che aveva un unico nome, quello di mia figlia Oksana. Avremmo dovuto dividerci. Stare lontane. Ma dovevo offrirle un domani, almeno a lei, alla mia Oksana.
Un groppo alla gola. Un sasso da inghiottire.
Nicolaj, suo padre, era un fantasma. Privo di qualsiasi responsabilità.
Al contrario di come era stato mio padre, ossessionato dal dovere. Ex poliziotto sovietico in pensione, mio padre, della responsabilità ne aveva fatto un culto. Invece Nicolaj, inghiottito dallo sfascio, aveva ceduto all’inerzia.
Non ho nulla da perdere, mi dissi quando presi il treno per Kiev.

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