Faccetta nera, cantavano gli italiani in Eritrea, la colonia africana voluta dal Duce che sognava l’impero. Ma c’era ben altro di nero, nella storia mai troppo raccontata fatta di massacri, gas nervino, stupri e torture. La riscoperta di questo libro di Ghebreyesus Hailu, L’ascaro, pubblicato per la prima volta in italiano da Tamu Edizioni, riempie una lacuna. Ghebreyesus Hailu (1906-1993), è stato una figura di riferimento nel panorama culturale eritreo del ’900. Formatosi negli istituti cattolici, ha trascorso a partire dal 1924 alcuni anni presso il Collegio etiopico in Vaticano. In seguito ha assunto alcuni incarichi religiosi e politici tra l’Eritrea, Addis Abeba e l’ambasciata etiope a Roma. A partire dal 1975 ha fatto parte dell’Accademia nazionale di lingua amarica, che ha poi presieduto. Ha scritto numerose opere di argomento liturgico, teologico, linguistico e letterario. Terminato nel 1927 – ancor prima dell’espansione fascista in Etiopia – da questo brillante religioso eritreo che aveva sfruttato i canali ecclesiastici per acquisire una formazione cosmopolita, L’ascaro è allo stesso tempo un tassello importante della storia letteraria africana e una testimonianza unica sul colonialismo italiano. In una singolare mescolanza di cultura popolare e riferimenti eruditi, il testo di Ghebreyesus Hailu qui tradotto dall’originale tigrino offre non solo una denuncia della brutalità coloniale, in un momento ancora vicino ai fatti, ma anticipa le riflessioni postcoloniali sugli effetti psicologici del colonialismo. Il libro ruota attorno alla vicenda di Tequabo, un giovane eritreo di buona famiglia, che decide di arruolarsi nell’esercito in cerca di fama. L’esercito è quello di una potenza coloniale, l’Italia, che da anni occupa il suo Paese. Un treno lo porterà da Asmara fino alla costa del mar Rosso, e da lì proseguirà in nave verso nord tra lo stupore per la scoperta di popolazioni, città e paesaggi nuovi. Quando però raggiungerà il deserto e si unirà alla sanguinosa campagna militare italiana per la conquista della Libia, per Tequabo il viaggio si trasformerà in un incubo in cui scoprirà l’asprezza del suo duplice ruolo di colonizzato e di strumento di un’altra colonizzazione. Fabio Poletti

Ghebreyesus Hailu
L’ascaro. Una storia anticoloniale
traduzione di Uoldelul Chelati Dirar
2023 Tamu Edizioni
pagine 140 euro 15

Per gentile concessione dell’editore Tamu pubblichiamo un estratto dal libro L’ascaro

Questi che fuggivano, gli ascari che li rincorrevano, gli italiani che urlavano ordini, tutto ciò era davvero uno strano spettacolo a vedersi: ecco tre popoli, ciascuno con il carattere del proprio paese, mescolati nella battaglia. Per i figli di habesha il combattimento significava avanzare a oltranza, qualsiasi cosa accada, per gli italiani invece si trattava innanzitutto di attenersi agli ordini del proprio comandante. Anche se ci si ritrovava sfidati dal nemico armato fino ai denti non si poteva fare una singola mossa se non comandati (almeno così dicevano). Uno non può sparare al nemico se non giunge l’ordine, anche se lo stanno sgozzando. Per gli arabi, invece, innanzitutto bisogna scagliarsi contro il nemico e, se le cose volgono al peggio, si corre a tutta la velocità per salvarsi. In poche parole gli habesha si impegnano senza risparmiare le forze, gli italiani in base a quanto concordato e gli arabi attraverso azione e rischio. Gli sventurati arabi si dileguano e gli habesha, come leopardi ruggenti che abbiano assaporato il sangue, non se ne vogliono far sfuggire nessuno, e così li inseguono a destra e a manca come cani da caccia e gazzelle in fuga. A dire il vero gli habesha nella corsa sono imbattibili e così, raggiungendoli uno per uno, ne fanno strage. Alcuni arabi (sono proprio sventurati), resisi conto di non poter scampare alla morte, si appiattivano sulla sabbia del deserto cercando di portare con sé i loro nemici, tenendo fede da musulmani al detto: «L’ospite che non passa da te stringilo forte e bacialo». Pertanto, quando si accorgevano che un nemico li stava inseguendo, voltandosi di scatto lo portavano con sé nel jennet che il loro padre Muhammad ha riempito di latte e miele. Un’altra tattica degli arabi consisteva nel tendere un agguato e uccidere lì il nemico. Così facendo uccisero molti figli di habesha. Alla fine, coloro che possedevano un cavallo riuscirono a fuggire e quelli che invece non ne avevano vennero uccisi o catturati. Fu vittoria completa per gli habesha. No, mi sbaglio: per gli italiani.
Giunta la sera gli italiani, dopo essersi fatti allestire il campo e accendere il fuoco dagli ascari, lasciarono che questi mangiassero a sazietà la carne delle capre che avevano razziato durante la giornata. Terminata la cena gli ascari, esausti, crollarono dal sonno e si addormentarono immediatamente. Tequabo era tra i giovani che quel giorno si erano distinti per valore ed era stato ripetutamente lodato per il suo eroismo e la sua destrezza. Ma quando ormai si stava preparando per andare a dormire, fu sorteggiato tra coloro che avrebbero dovuto fare il turno di guardia. Tequabo ne rimase amareggiato e disse tra sé e sé: «All’inferno, come dice il detto: ‘Dopo aver trascorso la giornata con un bue capriccioso non ti tocchi in sorte una donna capricciosa!’ Ma come, dopo aver trascorso la giornata a combattere e affaticarmi ora mi perdo il sonno notturno? Accidenti!» Tuttavia, conoscendo le consuetudini militari per cui non era possibile ottenere deroghe agli ordini né con pretesti, né con suppliche né per compassione, si avviò rassegnato, mordendo la sua frustrazione. Fare la sentinella significa stazionare in un luogo aperto e controllare chiunque entri o esca; significa vigilare che il nemico non attacchi all’improvviso. Durante il turno di guardia, chiunque parli con i commilitoni, chiunque si sieda o si faccia vincere dal sonno viene condannato a morte all’istante e fucilato. Che sia freddo o che sia caldo bisogna restare fermi immobili per due ore, qualsiasi cosa accada, senza cambiare posizione o luogo e senza spostarsi. Questa consegna era talmente sgradevole per gli ascari che avevano composto a proposito un ritornello:
Libia, Libia Libia, Libia
Di giorno marcia
Di notte guardia.

Titolo originale: Hade zanta
© Ghebreyesus Hailu, 1950