Flavia De Lucia Lumeno
Non li lasceremo soli
Italia, Francia, Algeria (1945-1958)

2020 Guerini e Associati
pagine 216 euro 22

Ci sono volte che l’Africa e gli africani ci fanno comodo. Altro che, le nostre radici e la nostra cultura o la difesa dei valori dell’occidente. Durante il conflitto che oppose la Francia e il popolo algerino che voleva l’indipendenza, l’Italia pur alleata della Francia, non ci pensò due volte a stringere rapporti con Algeri. In ballo c’erano i giacimenti di gas naturale, che oggi portano oltre 30 miliardi di metri cubi di gas l’anno, nelle condotte che attraversano Algeria, Tunisia e Italia, da Hassi R’Mel a Minerbio vicino a Bologna.
Negli otto anni della Guerra di Algeria, dal 1954 al 1962, l’Italia mosse le sue pedine sullo scacchiere internazionale, cercando di ottenere il massimo successo, dalle analisi preconizzate già dagli Anni Quaranta dall’allora ambasciatore ad Algeri Pietro Quaroni che intravedeva un ruolo di primo piano del nostro Paese nel Mediterraneo. Alle intransigenze del generale Charles De Gaulle seppe tener testa Enrico Mattei, il fondatore dell’Eni, il principale oppositore del cartello mondiale delle compagnie petrolifere angloamericane e francesi, morto poi in un misterioso incidente aereo nel 1962. Secondo Enrico Mattei i Paesi detentori delle riserve naturali avrebbero dovuto ottenere il 75% dei profitti derivanti dallo sfruttamento dei giacimenti. Quella che racconta con documenti ancora inediti Flavia De Lucia Lumeno, docente di Relazioni Euromediterranee all’Università Niccolò Cusano di Roma, è un pezzo importante della storia italiana nel Mare Nostrum. Quando aiutarli a casa loro significava davvero qualcosa. Fabio Poletti

Per gentile concessione dell’autore Flavia De Lucia Lumeno e dell’editore Guerini e Associati pubblichiamo un estratto dell’introduzione del libro Non li lasceremo soli.

Prima di arrivare al conflitto armato, tuttavia, gli algerini non furono precipitosi: le vicende dell’Indocina erano note, come anche le repressioni da parte francese. C’era la carta della politica e delle riforme da giocare in precedenza, valida finché i francesi non annullarono fraudolentemente i risultati delle votazioni passate con le elezioni del 1948.
Ci si trovava in un mondo ormai bipolare: aleggiava sui territori d’oltremare anche la potenziale influenza comunista, a cominciare dal partito marxista francese.
Se l’Italia inizialmente venne coinvolta nelle vicende algerine, tuttavia, non fu per richiesta della Francia o dell’Algeria né, tantomeno, per invito di altre potenze, da sempre desiderose di accaparrarsi la torta del Mediterraneo. Fu per l’arguzia e la lungimiranza del nostro ambasciatore a Parigi, Pietro Quaroni, che si accorse che l’Italia avrebbe potuto giocare un ruolo nella partita, invece di rimanere uno spettatore in panchina. Anzi, proprio delle divergenze tra «madrepatria» e territori d’oltremare, il nostro Paese avrebbe potuto beneficiare, incuneandosi tra esse, senza prendere esplicitamente le parti dell’una né degli altri, ma dimostrando che l’Italia era una presenza costante, non conflittuale, rassicurante, collaborativa…
La Francia, invece, si dimostrava sempre più repressiva e violenta, sulla pelle e sulle scelte, tanto che anche le votazioni alle elezioni legislative del 1951, in Algeria, furono notevolmente influenzate dalla paura di repressioni e di ritorsioni.
Il Nord Africa era una polveriera pronta ad accendersi, ancor prima che scoccasse la scintilla della rivolta in Tunisia.
E l’attenzione dell’Italia verso l’Algeria era ricambiata, come è possibile dedurre, per esempio, dall’opposizione dei nordafricani a un’Unione doganale franco-italiana, a favore, invece, di un sistema che integrasse maggiormente tutto il Mediterraneo. Era questa la dimensione in cui il nostro Paese desiderava muoversi: arrivare a tutto il bacino del Mare Nostrum, passando per i rapporti bilaterali con i diversi Stati. E, benché fosse un’alleata politica della Francia, l’Italia iniziò a guardare sempre più insistentemente ad Algeri come partner commerciale ed economico. La scoperta di ricchezze petrolifere e le possibilità di emigrazione resero la meta algerina più appetibile. Per tale motivo, anche il nostro governo non voleva essere associato a quello francese: l’avversione verso i lavoratori della madrepatria e lo sfruttamento delle risorse algerine da parte di Parigi non dovevano inficiare l’immagine dell’Italia, che non voleva rinunciare alle possibilità che si aprivano in Algeria, per via delle riserve energetiche e delle necessità di manodopera. Fu quindi, inizialmente, una valutazione economica più che ideologica a muovere i fili della nostra politica.
Ma era necessario non inimicarsi nemmeno i vicini francesi. E anche in questo caso l’Italia riuscì nella difficile impresa di farsi lasciare una via libera in campo commerciale e industriale in Algeria, senza interferire con le velleità politiche della Francia su quel territorio. Cosa spingeva Parigi ad accettare una presenza italiana in una zona che veniva considerata «metropolitana»? La constatazione che la Francia, in Nord Africa, era sempre più solitaria: il Governatore generale dell’Algeria, Roger Léonard, in un significativo colloquio con il sottosegretario agli Esteri, Francesco Maria Dominedò, confidò che l’assenza dell’Italia dalla sponda sud del Mediterraneo, per la perdita della colonia libica, aveva lasciato un grande «vuoto», che si sarebbe potuto colmare solo con un mercato euro-africano. E un’altra personalità francese arrivò a augurarsi che l’Italia avesse mantenuto la Tripolitania, perché «la France est terriblemente seule en Afrique du Nord». «L’Africa non può essere conservata dalla Francia sola, è l’Europa che deve assicurare prima e far valere poi il patrimonio africano» si sentì dire anche il nostro console ad Algeri.
La solitudine, quindi, fu uno dei fattori che mosse la Francia ad accettare l’azione italiana in Algeria e a incoraggiare il nostro Paese a muoversi per un’integrazione europea e una difesa atlantica che comprendessero anche quei territori che per Parigi erano importantissimi.
L’abbandono di cui soffrivano i francesi in Africa si accompagnava ad altre esigenze, che esterne all’Italia, incoraggiavano una attività politica del nostro Paese al di là del Mediterraneo. La Spagna, ad esempio, non disdegnava un ritorno dell’Italia in Africa, anche per controbilanciare l’egemonia francese, oltre che per «risarcire», in qualche modo, Roma per i suoi domini perduti. L’Egitto sperava, invece, che l’Italia tornasse in Africa per esercitare i suoi buoni uffici presso la Francia, a favore dell’indipendenza del Marocco e della Tunisia.
Tuttavia, in questa costante ricerca di equilibrio tra diversi interlocutori (europei, atlantici e mediterranei), la linea seguita da parte del nostro governo doveva mantenersi per forza ondeggiante.
Infatti, era nota la suscettibilità della Francia sulle vicende algerine, che se – da una parte – aborriva qualsiasi accenno di ciò che potesse essere interpretato come ingerenza politica, dall’altra strumentalizzava i partner europei per accertarsi, in qualsiasi maniera, di non essere sola contro il mondo arabo.
Roma si trovava, quindi, al centro di un tiro alla fune che vedeva a un capo della corda Parigi, pronta sempre a richiamare il nostro governo ai suoi impegni di lealtà atlantica; dall’altro gli Stati afro-asiatici che, nel consesso dell’Onu, pur non potendo ancora contare sulla presenza ufficiale del nostro Paese, speravano che influisse sui propri partner occidentali nella linea dell’amicizia verso gli arabi. L’unico rischio che l’Italia correva non era che la fune si spezzasse, ossia si perdessero i legami con l’una o l’altra parte, quanto che essa diventasse un cappio che potesse soffocare la sua politica.
L’Italia scelse di prediligere la solidarietà verso la Francia, soprattutto in sede delle Nazioni Unite, dove quest’ultima temeva sempre di rimanere sola di fronte al gruppo afro-asiatico. E Quaroni individuava che la strategia francese era spingere gli alleati sempre un passo avanti, in modo che fosse per loro impossibile, poi, tornare indietro.
Col passare del tempo, l’Italia si rese conto che le «dimostrazioni di amicizia» che forniva alla Francia rischiavano di ledere i propri interessi sia in Nord Africa che in Europa: in Algeria, per la presenza italiana, era necessaria la pace e questa avrebbe potuto essere assicurata da accordi con gli algerini, che Parigi non voleva (quasi) a nessun costo; l’Europa avrebbe potuto rinascere su basi nuove, ma la Francia voleva piegarla a una mentalità coloniale e quindi mantenerla su fondamenta arretrate. Inoltre, nonostante i tentativi, in sede delle Nazioni Unite, Roma rimaneva sempre, per Parigi, un interlocutore di serie B, mentre l’interlocutore forte, a cui essa guardava, era Washington. L’Italia adottò un ruolo di mediazione, di cui furono quasi più grati gli Stati nordafricani che non i francesi, come dimostrato dalle difese dell’Italia che Tunisia, Libano e altri Paesi presero in seno alla Lega Araba. Veniva riconosciuto che il nostro governo si trovava in una posizione molto difficile, dovendo mantenere tranquilli tutti i partner, ma – nonostante l’unilateralità delle visioni – non si ravvisò mai della slealtà da parte di Roma.
Anzi, quando l’intransigenza di una parte dei dirigenti francesi si ammorbidì e iniziarono i tentativi di dialoghi riservati con gli algerini, la sede del Ministero della Difesa italiano ne vide lo svolgimento di alcuni, anche se non in coordinamento con gli Esteri.
Le divergenze su questo tema, al di là delle Alpi, erano comunque eclatanti e Roma si rendeva conto che se fosse continuata la linea «dura» contro i ribelli, Parigi avrebbe chiesto un coinvolgimento economico e militare agli alleati, perché da sola non avrebbe potuto portare avanti per molto la campagna di repressione. Si presagiva la necessità di una svolta, ma – secondo quanto suggeriva Quaroni – era meglio che l’Italia non fosse il primo Paese ad attuarla, attendendo piuttosto che si facessero avanti altri Stati occidentali (in particolare, Gran Bretagna e Stati Uniti) per portare i francesi su posizioni più ragionevoli.
Di fatto, la svolta avvenne nella politica francese con il ritorno di De Gaulle al potere. Si auspicava, nella madrepatria, che lui fosse l’uomo forte che potesse risolvere la questione algerina. Il colpo di Stato era partito proprio da Algeri e la meta ideale non era Parigi, con i palazzi del potere, ma quel territorio considerato «metropolitano», seppure a migliaia di chilometri di distanza.
Con il ritorno del generale, la questione algerina ormai si dirigeva verso una soluzione che comportava l’indipendenza. I servigi dell’Italia in merito sarebbero stati ancora richiesti, ma il senso di isolamento e di solitudine che la Francia aveva sentito negli anni precedenti, e che il nostro Paese aveva cercato di colmare, si sarebbe pian piano attenuato.

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