Un coraggioso libro di memoir che apre spazi infiniti nel mondo queer e musulmano, dove molti Paesi considerano l’identità LGBTQ+ un peccato e soprattutto un reato da punire con la frusta e con il carcere. Riduttivo definire Hijab Butch Blues, scritto da Lamya H. e pubblicato da Le Plurali, un libro militante. È soprattutto la rivendicazione orgogliosa di una identità, destinata ad aprire un dibattito nel mondo musulmano e non solo, dove tradizione e diversity possono e devono convivere. Lamya H. è una scrittrice queer musulmana che vive a New York. È un’ex Lambda Literary Fellow i cui scritti sono apparsi su Vice, Salon, Vox, Black Girl Dangerous, Autostraddle e Los Angeles Review of Books. Attualmente vive a New York con l* su* partner. Sul suo sito, la bio ce la fa conoscere ancora meglio: «Il lavoro organizzativo di Lamya H. si concentra sulla creazione di spazi per musulmani LGBTQ+, sulla lotta all’islamofobia, sulla Palestina e sull’abolizione delle carceri. Nel tempo libero, mangia molti dolci preparati dal/la su* compagn*, gioca a giochi da tavolo con chiunque riesca a radunare e si impegna per raggiungere il suo obiettivo di raggiungere ogni fermata della metropolitana della città. Non ha mai corso una maratona». Con questo suo libro che ha avuto uno strepitoso successo internazionale Lamya H. ha vinto il Brooklyn Public Library Book Prize e lo Stonewall Non-fiction Book Award. Le Plurali è una casa editrice femminista, indipendente, intersezionale. Pubblica libri di saggistica e narrativa, esclusivamente d’autrici. Questo libro è il primo del progetto Voci Kwir, che accoglie voci autoriali queer dall’area mediorientale, nordafricana e delle diaspore, per superare ogni tipo di stereotipo. Il romanzo ruota attorno a una giovanissima Lamya che vive in Medio Oriente, ha quattordici anni e una cotta per la sua insegnante. Lamya si annoia terribilmente, vorrebbe sparire, si sente fuori posto. Fino a quando, leggendo un passo del Corano, tutto cambia, perché Lamya si rende conto che anche Maria di Nazareth era disinteressata agli uomini, proprio come lei. Inizia allora a rileggere il Corano mettendolo in relazione con le sue esperienze, desideri e il suo coming out. Lamya costruisce un po’ alla volta la sua identità di donna migrante, musulmana e queer, e i rapporti con la comunità a cui appartiene. Questo memoir intimo e toccante, che va dall’infanzia della protagonista al trasferimento negli Stati Uniti per l’università, fino all’età adulta, racconta una storia universale di formazione e di autodeterminazione, che abbatte luoghi comuni e barriere culturali. Fabio Poletti
Lamya H.
Hijab Butch Blues
Traduzione di Beatrice Gnassi
2024 Le Plurali
pagine 308 euro 18 ebook euro 9
Per gentile concessione di Lamya H. e dell’editrice Le Plurali pubblichiamo un estratto dal libro Hijab Butch Blues
Suono il campanello, un po’ impaurita da quello che mi aspetta, un po’ impaurita che passare l’estate lontane abbia cambiato la nostra amicizia. Ma Lina apre la porta, grida per l’eccitazione quando mi vede e le mie ansie si sciolgono. Mi accompagna dentro. La porta barocca conduce a un complesso residenziale dove tutti i fratelli e le sorelle del padre di Lina vivono con le loro famiglie, in case enormi circondate da un muro di recinzione. Ogni cosa è più grande di quanto avessi previsto: le macchine parcheggiate nel vialetto, la piscina, le case stesse. L’atrio di Lina è cavernoso e opulento ma con naturalezza, con candelabri di cristallo e broccati dorati ovunque guardi. Sono troppo disorientata per notare quanto è tranquillo, quanto è vuoto di persone. Ma non abbastanza abbagliata da non provare vergogna, da non sentirmi sollevata che alla fine lei non sia mai venuta nell’angusto appartamento in cui vivo.
Lina mi conduce lungo diversi corridoi labirintici fino alla sua camera. Anche la sua stanza è più grande di quanto mi fossi immaginata, quasi le dimensioni dell’intero appartamento della mia famiglia. È decorata di viola, il suo colore preferito, e c’è una televisione, un computer e un telefono, tutto nella sua camera. È la stanza dei miei sogni. Ingoio l’impulso di dirlo, mi impongo di far finta di niente davanti alle amiche che sono già qui, amiche di Lina a dire il vero, due ragazze arabe dalla pelle chiara che ho conosciuto alla fine dello scorso anno scolastico. Lina ha collegato la sua macchina fotografica digitale alla televisione e sono tutte intente a guardare le foto del suo recente viaggio a Los Angeles. Mi unisco ai loro oooohhh e aaahhhh per le foto scattate al Sunset Strip, alle spiagge e per la recente ossessione di Lina per un certo tipo di animali: i golden retriever. Dopo un sacco di foto con pessime inquadrature di panorami e cani, finalmente ne vediamo una di lei con la sua famiglia, in posa davanti al cartello di Hollywood. Sono curiosissima del loro aspetto: il padre di cui si lamenta così tanto, la madre con cui si scontra, i fratelli e le sorelle più grandi, belli e alla moda. La foto è abbastanza carina: tutti somigliano un sacco a Lina e indossano magliette e pantaloncini, abbinati in modo stucchevole.
«Oh! Sei in pantaloncini!», dico prima di riuscire a trattenermi dallo sputare fuori questa cosa così sfigata da dire. Lina e le sue amiche si guardano l’un l’altra e scoppiano a ridere.
«Già?», dice Lina. «Cos’hanno che non va i pantaloncini?».
«Niente. Ero solo sorpresa. Tua mamma te li lascia indossare? E anche lei li mette?».
So che sto tradendo me stessa, ma questa cosa di indossare i pantaloncini è inimmaginabile per me, avendo passato gli ultimi undici anni della mia vita in questo paese arabo che ha un codice di abbigliamento. E stanno già tutte ridendo di me, per cui penso, perché non soddisfare la mia curiosità? Mia madre non mi permetterebbe mai di mettere i pantaloncini, neppure dentro casa, decisamente non fuori e addirittura evoca shaytan quando metto le magliette a maniche corte. E so che nessuno nella famiglia di Lina è super religioso, ma la me di quindici anni che ha appena iniziato a indossare l’hijab qualche mese fa (non per modestia o per la necessità di coprirmi ma per sentirmi più vicina a Maryam, per sentirmi più vicina a Dio) è ancora sorpresa davanti alle gambe in mostra.
«Be’, già. È così diverso là. Mia mamma dice che non ci sono viscidi in giro, né i tipi strani che fanno i marpioni che vengono da tutti i paesi arretrati come questo. Là nessuno ti fissa, nel modo in cui lo fanno gli uomini qui. Mia mamma dice che quando andiamo negli Usa possiamo indossare qualsiasi cosa vogliamo».
«Ma non è che tua mamma ti ha mai detto di indossare l’hijab o coprirti qui, giusto?», un’altra amica di Lina chiede. «Solo quando siamo fuori dal complesso o di fronte
alla servitù, sai, tutta questa gente a cui tu non fai mai caso, ma che è sempre intorno. Come il nostro autista, Masood. L’avete visto tutte, no? Con i baffi neri e gli occhi pungenti. Sembra una specie di stupratore».
Manda gli occhi al cielo mentre lo dice, ma si ferma a guardare proprio me quando continua.
«Sapete, non gli permettiamo di abitare nemmeno nel complesso. Viene da un villaggio povero e si capisce che non ha mai visto donne come noi prima. È il tipo di persona per la quale mia mamma mi dice di coprirmi, perché non sia tentato da me. È così strambo, wallah, non lo noti nemmeno ma in qualche modo è sempre intorno, come un jinn. Mia mamma dice che dobbiamo proteggere noi stesse; è meglio stare al sicuro che dispiacersi. Non sai mai se qualcuno del genere possa desiderarti. Sai di cosa parlo, giusto Lamya? Sai cosa intendo per gente del genere? Gente che non ha mai visto una donna come noi? Gente che ha un atteggiamento da molestatore?».
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