Ciao a tutti e a tutte, oggi sono contenta di potere dedicare il premio Vergani 2024 che ho vinto sabato scorso a tutte le donne afghane a cui i talebani hanno tolto letteralmente la voce. E cogliere l’occasione per ribadire che dobbiamo impegnarci per la sorellanza internazionale e batterci contro l’apartheid di genere. Per questo motivo vi voglio raccontare la storia di Samia Hamasi, la calciatrice e allenatrice della nazionale di football afghana, protagonista della storia che è stata valorizzata dalla giuria dei cronisti lombardi.
Quattordici, diciassette e undici. Sono questi i numeri che hanno scandito la vita di Samia Hamasi, l’atleta afghana che ha sfidato i talebani per restare su un campo di calcio. Quattordici è il numero della maglia che ha indossato nella nazionale femminile di calcio formata nel 2007 per promuovere l’emancipazione sportiva nel paese parzialmente liberato dal primo regime talebano dall’alleanza atlantica. Diciassette è quello della nazionale femminile afghana under 17 che ha allenato dal 2020 fino allo sciagurato ritorno dei talebani al potere. Undici, invece, è il numero della maglia che è riuscita a indossare di nuovo nella squadra tedesca VFL Bienrode a Braunschweig, nel land della Bassa Sassonia.
Ho conosciuto Samia in un centro di accoglienza milanese dove aveva trovato rifugio dopo la tragica evacuazione da Kabul. L’ho seguita, ascoltato la sua storia, cercato di aiutarla. E, come si dovrebbe fare sempre, non l’ho dimenticata dopo che i riflettori dei mass media si sono spenti sulla tragedia del popolo afghano a cui l’occidente ha voltato le spalle. E ora che ci giungono notizie sempre più cupe sul destino delle donne afghane, voglio raccontarvi della nostra conversazione avvenuta su Skype 21 mesi dopo la sua fuga in Europa, quando è riuscita a ottenere asilo in Germania e a tornare in campo
Perciò ho deciso di ripubblicare parte del lungo articolo che le ho dedicato nel luglio del 2023.
Seduta sul divano di un monolocale, capelli sciolti e lunghi fino alle spalle e tinti di biondo, Samia Hamasi parla un po’ in inglese e un po’ in tedesco. Si è collegata su Skype per mantenere una promessa che mi aveva fatto due anni fa, quando ci siamo conosciute per caso nel settembre del 2021 in un centro di accoglienza milanese dove aveva trovato rifugio dopo la caotica e drammatica evacuazione dall’Afghanistan. Ci siamo ritrovate di nuovo per caso, dopo che mi ha cercato per chiedermi di aiutare la sua famiglia rifugiata in Italia. Quando l’ho incontrata, era riuscita a scappare grazie all’aiuto di un’associazione, Pangea, e a salire su un aereo preso d’assalto dagli afghani mentre i talebani puntavano i fucili contro il suo corpo minuto. Aveva 24 anni, sembrava impaziente, non riusciva a stare ferma ad aspettare che il destino decidesse quale sarebbe stato il suo futuro in Europa. Aveva sfidato i talebani che, per impedire alle donne di giocare a calcio, nel 2019 fecero un attentato al quartiere generale della Federazione a Kabul. Magra, decisa, espressione volitiva, mi aveva mostrato il video dell’edifico sventrato, la coppa vinta nel campionato nazionale e le immagini della sua squadra. In quel breve e casuale incontro mi aveva detto che avrebbe voluto giocare a calcio con il Milan.
Ci siamo lasciate con una promessa: rivederci qualche giorno dopo per parlare della travagliata storia della sua vita di calciatrice e allenatrice; della battaglia contro la famiglia per entrare in un campo da calcio e della fuga da Kabul. Una promessa che non è riuscita a mantenere perché poche ore dopo è scomparsa. Finché non mi è arrivato un suo messaggio su WhatsApp: “Ho preso un treno per Hannover, ho avuto dei problemi, ti spiegherò”, mi aveva scritto prima di scomparire di nuovo.
Durante una lunga conversazione in cui Samia Hamasi, mescolando l’inglese che ha dimenticato e il tedesco che stava studiando ogni mattina a scuola grazie al sostegno del governo tedesco che l’ha accolta, mi ha raccontato finalmente tutta la sua storia in esclusiva per il Foglio. Quella di una giovane donna che sin da piccola ha preso la vita a morsi. Oggi ha ventisei anni, e negli occhi ha lo stesso guizzo che mi aveva colpito nel settembre del 2021.
Samia Hamasi sa che se fosse rimasta in Italia non avrebbe avuto le stesse opportunità che ha avuto in Germania. A Braunschweig ha una sola amica che è afghana. “One friend is a good friend”, dice. “Non voglio frequentare altri afghani e parlare farsi, devo perfezionare il tedesco, perché devo studiare e lavorare. Nella mia squadra sono l’unica rifugiata ma senza una buona padronanza della lingua non posso andare avanti, studiare per prendere la certificazione di allenatrice. Ho 26 anni, non potrò giocare a lungo, dovrò per forza tornare ad allenare. Vorrei andare nelle scuole a raccontare la mia storia e allenare le giovani promesse del calcio”. Samia si accarezza le ciocche di capelli diventati biondi chissà se per assomigliare un po’ alle sue coetanee tedesche e osserva: “Io non metto il velo. il Corano non lo prescrive, solo i talebani lo sostengono perché sono ignoranti e criminali. Però ogni tanto prego, qui a casa mia. Nell’appartamento che ho trovato da sola. L’affitto lo paga il governo tedesco che mi sta aiutando a studiare e a integrarmi”. Alla mia domanda sul motivo per cui ha le pareti spoglie senza fotografie né quadri, lei scatta in piedi e mi chiede di aspettare. Prende uno zaino e tira fuori due poster delle sue due squadre preferite: il Bayer Monaco e il Milan. E poi diversi disegni che rappresentano la proiezione del suo peggiore incubo. Cioè come sarebbe stata la sua vita se non fosse riuscita a salire su un aero diretto in Europa. In un autoritratto tiene gli occhi chiusi, indossa il burqa e nelle braccia tiene un pallone che stringe al petto, mentre due talebani armati alle sue spalle la sorvegliano. In un’altra illustrazione guarda rassegnata un talebano con lo sguardo minaccioso che tiene nella mano destra un fucile e in quella sinistra una frusta. “Mi piace disegnare: lo facevo prima di partire sin da quando ero piccola e ora ho ripreso al centro della Caritas”, spiega. “In questi disegni ho immaginato cosa sarebbe successo se non fossi riuscita a prendere l’aereo durante l’evacuazione. Si tratta di un brutto ricordo di quei momenti tragici all’aeroporto che ho voluto rielaborare per ricordarmi cosa ho lasciato dietro le spalle e la lotteria che ho vinto quassù in Germania”. Nel paese europeo, che ha accolto trentamila rifugiati afghani, adesso è libera di giocare e di creare il suo futuro, quello che ha conquistato dopo il viaggio in aereo e la fuga da un’Italia immobile, e dove probabilmente sarebbe ancora in un centro di accoglienza, parcheggiata ad aspettare di riprogettare una nuova vita.
Nel febbraio del 2022 ha annunciato la sua prima vittoria in Germania, pubblicando un messaggio su Twitter: “Con l’arrivo dei talebani avevo perso ogni speranza di ricominciare gli studi e lo sport. Ma oggi, dopo quattro mesi di sforzi e allenamenti, ho iniziato ufficialmente la mia formazione nella squadra VFL Bienrode nel campionato femminile del land della Bassa Sassonia”.
Provo un senso di immensa gratitudine per Samia Hamasi perché ha una forza interiore talmente grande che riesco solo a sfiorare. Ora la vedo su Skype, dall’appartamento che lei può chiamare finalmente casa, a Brawnschweig. Orgogliosa di aver mantenuto anche la promessa che aveva fatto a sé stessa, dopo la fuga da Kabul, di tornare su un campo da calcio e poter dire: “Ogni sera bisogna andare a dormire con un sogno e svegliarsi con un gol”.
Ho voluto ripubblicare la sua storia pubblicata dal Foglio nel luglio del 2023 per fare un piccolo omaggio a tutte le donne afghane segregate dal regime talebano. E alle calciatrici che sono scappate in Europa e in Australia per salvarsi la vita e continuano a giocare, senza che la Fifa riconosca il loro diritto a competere, nonostante i talebani abbiano cercato di boicottarle prima, con minacce e persecuzioni, e poi bandite. E la foto che vedete sotto è l’ultima che mi ha mandato dalla Germania dove oltre a studiare disegnava in un centro della Caritas quello che aveva visto, vissuto e sofferto sulla propria pelle.
Spero che il prestigioso premio Vergani serva a ricordarci di loro, che ora non possono neanche far sentire la loro voce quando pregano e studiano ancora una volta clandestinamente. Lo sport è uno strumento di emancipazione in tutto il mondo. Spero che Samia, come tutte le sue sorelle, possa ottenere il riconoscimento a scendere di nuovo in campo per competere nei campionati. Come chiede da anni la fondatrice della nazionale afghana, Khalida Popal, che continua a lottare per loro dalla Danimarca, dove ha fondato l’associazione Girl Power per aiutare le calciatrici esuli ma anche tutte le atlete in tutto il mondo dove alle donne viene impedito di fare sport.
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