Il braccio di ferro fra il nuovo ministro, Matteo Piantedosi, e le ong sulle pelle dei migranti è uno spettacolo già visto. Dura dai tempi in cui alla guida del Viminale c’era un tale che si chiamava Marco Minniti. E la tregua l’abbiamo avuta non tanto perché prima, col governo Draghi, ci fosse nella maggioranza il Partito democratico, ma semmai per il Covid. Anche se bisogna ritornare al 2018 con l’altro Matteo (Salvini) per assistere all’indegna strumentalizzazione del tema migranti, che oggi penalizza l’Italia in Europa in un momento delicato per i nuovi assetti istituzionali ai tempi della crisi energetica e non solo. Anche perché alla fine è difficile fare uno “sbarco selettivo” dato che – come hanno dimostrato i medici, psicologi e psichiatri – chiunque sia stato a lungo in mare e sia passato dalle cayenne della Libia è un soggetto vulnerabile, bisognoso di cure e di assistenza psicologica. E chissà che questo autogol insegni qualcosa al Governo che ogni volta, come nel 2018, non può che fare marcia indietro davanti gli sbarchi. E chissà che questo autogol insegni al presidente del Consiglio che non può fare blocchi navali, ma invece deve governare il Paese. Affermati questi banali principi sullo stato di diritto, questa settimana voglio parlarvi d’altro. Voglio raccontarvi due storie che sono finite a teatro. Voglio parlarvi della storia di Sid, italoalgerino che è nato in una periferia urbana europea, e di Harjeet Singh, arrivato dal Punjab che si è ribellato al caporalato. Entrambe le storie sono la trasposizione letteraria di due piaghe della nostra società.
Sono nato ai bordi di una periferia. La periferia di una città. La periferia di un mondo. La periferia di una razza. La periferia di un magazzino pieno di scarti che verranno buttati in mare. Inutili. Oggetto, nessuno ti ha comprato. Hai fallito, oggetto. I tuoi fratelli e le tue sorelle ti aspettano. I tuoi padri si aspettavano altro da te. Periferie annoiate, siamo in mezzo a una pagina bianca, non sappiamo cosa scrivere, imbrattiamo i muri coi cristalli. Litri e litri di cristalli. A fumare. Non volevamo essere guardati. Volevano essere ispirati. Volevo essere amato. Ammazzo.
Perché chi l’ha detto che non vogliamo essere ispirati? Non ce lo meritiamo noi un qualche grandioso progetto umano che ci dia un senso? Perché se non trovate qualcosa di grandioso di cui gente come me possa far parte, noi faremo a pezzi quello che grandioso non è. Un quartiere dopo l’altro, un edificio dopo l’altro. Famiglia per famiglia. Una sanguinosa guerra civile di cui sarete i primi a stupirvi

Harjeet Singh invece viene dal Punjab, uno stato dell’India. Viveva in campagna con la sua famiglia e a 24 anni ha deciso di vedere il mondo. Voleva che la sua famiglia avesse più soldi, voleva comprare a suo padre un grande trattore blu. Aveva una paura terribile, ma è partito.
Il primo giorno di lavoro me lo ricorderò per sempre. Devo raccogliere ravanelli, le radici rosse e un po’ piccanti, cammino in ginocchio per tutta la lunghezza della serra, con la schiena piegata. Ci sono solo due regole: la prima è che bisogna lavorare veloce, la seconda è che più raccogli, più guadagni. Raccolgo i ravanelli, li divido in mazzette da 15, ogni 150 mazzette, 3 euro, dalle 7 di mattina alle 7 di sera. Finito il lavoro chiamo Kamal, non mi avevi detto del cottimo, le12 ore di lavoro, ma Kamal dice non ti preoccupare, non ti lamentare il primo giorno e ringrazia Dio di avere un buon lavoro
Un ragazzo indiano di nome Harjeet viene in Italia per lavorare. Diventa velocemente vittima del caporalato che gestisce il lavoro agricolo nell’Agro Pontino. Harjeet è l’ultimo anello di una catena di sfruttamento che parte dalla grande distribuzione dei supermercati e finisce nelle serre dove si coltiva la verdura. Il Monsone – Una storia di caporalato è uno spettacolo pensato come un concept album. Musica, voce e immagini compongono i pezzi di un processo al contrario: l’uomo sfruttato si ribella e per questo deve essere punito. Anche questo è uno spettacolo teatrale di e con Beppe Casales, ispirato al libro Sotto padrone di Marco Omizzolo. Un monologo che è andato in scena di nuovo a Crotone durante un incontro organizzato dalla cooperativa Agorà Kroton sul tema del caporalato.
E poi ci insegnano a leggere quello che c’è scritto nella busta paga, ci dicono a cosa corrispondono tutti quei numeri, quelle caselle, io mi ero sempre fidato di Kamal, ma scopro che Kamal è un caporale, che mi ha detto un sacco di bugie, perché nella mia busta paga c’è scritto che lavoro 9 giorni al mese e invece ne lavoro 27, nella busta paga c’è scritto che lavoro 6 ore e mezza e ne lavoro il doppio, nella busta paga non c’è scritto che la Repubblica italiana è fondata sul lavoro, forse dovrebbero scriverlo, la Repubblica italiana è fondata sul lavoro, ma sul lavoro di chi?
Perché vi racconto queste due storie? Perché le eccellenze di cui vi abbiamo parlato attraverso articoli e workshop servono a ispirare chi cerca di mettere la testa fuori dall’acqua. Perché tutti aspettiamo il monsone, il vento che porterà la pioggia del cambiamento
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