Alla prima kermesse italiana dedicata al K-Drama che si è tenuta nello scorso weekend al Teatro Tasso di Sorrento, ho potuto assistere a una leggiadra forma di contaminazione culturale. Ho toccato con mano il successo planetario delle serie televisive che raccontano la hallyu (letteralmente onda coreana) e fanno impazzire adulti e piccini perché sanno mescolare romanticismo, drammi e intrattenimento ma anche trasmettere messaggi su inclusione e diversità. Nella cittadina affacciata sul Vesuvio, gemellata con la città coreana di Gangneung, italiani e coreani hanno riempito la sala per acclamare i loro idoli al K-Drama Festa.

Autismo, disturbi mentali fra le nuove generazioni ed emancipazione femminile sono alcuni dei temi affrontati, fra danze K-pop, canzoni napoletane, videoclip di alcune delle serie più famose. E grazie allo sponsor AT Korea Agro-Fisheries & Food Trade Corporation, anche piatti deliziosi coreani o fusion cucinati dagli studenti della scuola alberghiera dell’Istituto Superiore San Paolo (dove fino al 1985 c’era un monastero di monache di clausura) guidati in un’esperienza inedita dalla chef Sun Young Koo e dallo stellato Mario Affinita.

Foto di Luca Gazzini

Per me profana, che mi ero fermata all’infatuazione maniacale per Extraordinary Attorney Woo (e le balene ovviamente), è stata una sorprendente esperienza scoprire l’evoluzione sociale del K-Drama che affronta da alcuni anni una serie di temi controversi e tabù nella Corea del Sud.

Mi ha emozionato ascoltare l’esperienza dell’attore Oh Jung-se che ha recitato la parte di Moon Sang Tae, affetto dallo spettro autistico nella serieIt’s Okay to Not Be Okay. Nella serie vive una strana esistenza con il fratello minore che accudisce: ogni primavera cambiano città a causa di un trauma che lo perseguita dopo aver assistito all’omicidio della madre ed è ossessionato dal terrore per le farfalle.

Sul palco, intervistato da Bianca Terracciano dell’università della Sapienza, ha raccontato la sua empatia verso il protagonista. «Il successo del K-Drama è dovuto alla narrazione sulla diversità e le criticità che viviamo tutti», ha sottolineato Bianca Terracciano, ricercatrice di semiotica alla Sapienza e coordinatrice dei multipli eventi del K-Drama Festa.

 

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Dal 2020, nell’anno in cui siamo tutti restati a casa a guardare serie televisive, la popolarità dei K-Drama in Italia è cresciuta in modo costante. Ed è anche cambiato il format che non è più solo focalizzato su lui-lei-l’amore ma anche sulle sfide, le tragedie della quotidianità. Organizzato dalla Sapienza, l’ambasciata della Repubblica di Corea in Italia, l’Istituto Culturale Coreano di Roma, Regione Campania, Campania Film Commission, ENIT, Lars Laboratorio Romano di Semiotica e Baikbong Institute, il Comune di Sorrento, la festa è stata un tripudio di leggiadria ma anche di riflessioni sulle sfide sociali e globali.

Foto di Luca Gazzini 

Certo, le lunghe giravolte romantiche fanno spazientire e le tradizioni coreane continuamente sbandierate possono annoiare, ma è stato istruttivo ascoltare Kim Ji-yeon – in Twenty-Five, Twenty-One interpreta il ruolo di una coach che aiuta una determinatissima aspirante schermidora a far emergere il suo talento- ha parlato della conciliazione lavoro e maternità in una società molto competitiva. E fra le altre Ye Ji-won, poliedrica artista che ha imparato l’italiano e, molto ironica, ha raccontato delle proprie debolezze, dicendo che si può anche invecchiare bene. Alla festa dedicata alla K culture, c’era anche la scrittrice Kim Eun-hee, soprannominata “l’Agatha Christie coreana”. Le sue sceneggiature si concentrano principalmente su temi sociali anche quando parlano di zombie, come in Kingdom. Insomma dalla Corea del Sud, non proprio un Paese leader dello stato di diritto e della parità di genere dove le profonde diseguaglianze sono state ritratte in modo spietato da film come Parasite o serie come Squid Game, possono arrivare messaggi importanti sull’inclusione anche attraverso le serie” nazionalpopolari” del K-Drama. Senza dimenticare però cosa affermava il regista John Ford: “Nel dubbio, fate un western”.

Foto di Luca Gazzini