Non basta dividere i buoni dai cattivi. La paura va compresa. E la narrazione buonista non aiuta, anzi. Poniamoci domande, invece di dare sempre affrettati giudizi. Questa è la sintesi della riflessione di un nostro lettore della prima ora che si interroga e ci interroga.

Approfitto della presenza di Nuove Radici.World e degli stimoli che mi sono pervenuti dalla lettura dei vostri interventi per proporre un ragionamento sul perché — di questi tempi — in tanti, temo, abbiamo rischiato di diventare razzisti. Forse razzisti è parola grossa, ma a volte ci si sente “condannati” così, quando si esprimono dubbi sull’immigrazione e sulle politiche di accoglienza; e così ci si sente sempre più soli.

Non mi pare di essere affetto da “etnocentrismo” o cose simili, in realtà; ma da “solitudine” sì; e credo di non essere solo, come accennavo: non siamo razzisti ma cittadini che si sentono poco rispettati nella loro intelligenza, da un progressismo (chiamiamolo così, con qualche timore per la semplificazione) che ha fretta (comprensibile, sotto alcuni aspetti, visti i ritardi italiani), ma molto poco “attento” a dinamiche collettive tutto sommato elementari.

La società multiculturale e il ricatto delle “leggi di civiltà”: è vero che “There is no alternative”?

Spesso i progressisti — soprattutto i più “a sinistra” — criticano le scelte economiche degli ultimi anni richiamando il celebre slogan thatcheriano “There Is No Alternative” (TINA) che avrebbe imposto al mondo scelte “oggettive” solo in apparenza, ma in realtà fortemente “classiste” e “di destra”; si può discutere a lungo su quanto vi sia di vero in questo giudizio e quanto no (io personalmente ho delle perplessità), ma per il problema di cui parlo qui mi pare più importante sottolineare come la “tentazione dell’inevitabile” sia ben presente anche nella “retorica antirazzista”. La società multiculturale? È inevitabile, è destino, arriverà comunque.
Dire così però è un problema; di più, un errore. Perché:

  1. L’inevitabile è “antipatico”; quando mai, se sei “spinto” da qualcuno verso qualcosa, ci vai volentieri? La prima cosa che fai rispetto a una “spinta” — soprattutto se brusca — è (anche involontariamente) frenare.
  2. L’inevitabile non spiega, tante cose quindi non vengono capite, tanti dubbi vengono sottaciuti; la rabbia di chi ha difficoltà, ma non trova interlocutori può essere sottovalutata e disprezzata ma non cancellata. Prima o poi esplode.
  3. L’inevitabile spesso non è univoco, in realtà: ammesso che il futuro sia “multiculturale”, se non si chiariscono molte cose di questo percorso, rischiamo di prendere un grave abbaglio (è multiculturale anche una società fondata sull’apartheid, tanto per intenderci).

È anche per questo che a mio avviso è stato “disastroso”, dal punto di vista politico (e direi etico, se non fosse parola troppo impegnativa), portare avanti la battaglia per una legge — per quanto giusta come potrebbe essere quella sulla cittadinanza — presentandola come un’istanza suprema, spartiacque di civiltà.

Al di là della questione nel merito, la cui complessità non può essere risolta sulla base di slogan, potrebbe anche essere utile tentare di capire alcune reazioni che si provocano nel tessuto sociale: in un momento di grave crisi economica, l’estensione della cittadinanza forse viene percepita anche come ulteriore concorrenza dell’immigrato rispetto al cittadino già italiano.

Si dirà: “ma facciamo pochi figli, gli immigrati ci pagano le pensioni”, e via così dicendo; il che è vero, ma non dovrebbe stupire che sottolineando questa “dipendenza” aumentino ansia e timori, nel confermare la sensazione che l’Italia rischia di non farcela “da sola”.

Che queste ansie siano irrazionali non conta, hanno qualcosa di profondo che non può essere semplicemente rimosso o ridicolizzato. La sensazione di declino negli italiani c’è, e il fatto di “legarsi” agli immigrati per sopravvivere non diventa un fattore di alleggerimento della tensione: anzi, aumenta lo spavento, il sentirsi deboli.

Razzista? Forse semplicemente umano. Non si è mai contenti di “dipendere da”, e colui da cui cominci a dipendere scatena più facilmente inimicizia, che solidarietà; e, comunque: non è con ragionamenti etici che si convincono gli impauriti, ma restituendo fiducia. Se non è troppo tardi.

L’emergenza umanitaria: aiutare nell’incendio? doveroso, ma l’incendio fa paura

Andando da richiamo morale a richiamo morale: l’emergenza umanitaria è stata in questi mesi messa spesso al centro dell’attenzione per giustificare l’accoglienza; naturalmente questo è sacrosanto, nel momento in cui donne e uomini fuggono da morte o sofferenze pressoché certe. Ma anche qui, temo che si sia sottovalutato l’impatto duplice e ambivalente di un tale richiamo.

Figuriamoci di veder scoppiare un incendio devastante in un palazzo vicino a dove abitiamo e veder fuggire da quel posto centinaia di persone, che si dirigono verso casa nostra. Le accoglieremmo? Certo che sì, credo. Le accoglieremmo tutte? Già questo diventa più difficile, soprattutto se i nostri vicini di quartiere — anche per screzi di altro tipo per cui litighiamo quotidianamente — non ci aiutassero come in teoria dovrebbero.

La domanda però che fa capire l’ambiguità dei sentimenti però è la seguente: le accoglieremmo tranquillamente? Beh, no.

Un incendio fa paura. Di per sé; e mentre chiamiamo i pompieri comunque guardiamo attentamente cosa succede, e se le fiamme da quel palazzo non rischino di venire verso noi. E se per caso sorge il sospetto che fra quelle persone ci sia proprio uno di quelli che ha usato con leggerezza il gas o i fiammiferi nella casa in fiamme… beh, forse saremmo molto guardinghi nell’accettare la vicinanza dei fuggitivi.

Perché sembra così inaudito ad alcuni che i sentimenti si mischino e che gli esseri umani abbiano difficoltà a essere totalmente solidali con chi scappa da una tragedia? Cosa c’è di difficile nel capire che — in una situazione di emergenza — mentre si dà un bicchiere d’acqua, è legittimo e normale (e sano, per un “animale” sociale che si vuole autoconservare!) che “si tenga d’occhio” chi arriva? Che si abbia paura che l’emergenza si scarichi anche su chi aiuta? È una “doppiezza”, un’ambiguità, inevitabile.

È legato a questa difficoltà a capire questa mescolanza di cose, mi pare, l’errore più tragico dello schieramento progressista, involontariamente svelato da un famoso attore che alla recente marcia antirazzista a Milano ha detto (vado a memoria) qualcosa del tipo “Questa è l’Italia che mi piace”, sembrando quasi – al di là delle sue intenzioni – voler rimarcare una distanza da un’altra Italia, (presunta) egoista e cattiva. 

NO. Non è l’altra. Per esempio, la Milano che ha accolto con generosità tantissimi profughi è anche la Milano che a un certo punto ha avuto timore di veder “perdere” la stazione Centrale, lasciata diventare in alcuni momenti una zona “difficile”. La Milano che aiuta NON è diversa dalla Milano che chiede il decoro, l’attenzione all’ordine.

E così vale per tutta l’Italia. Non ci sono i cattivi e i buoni. Se la politica usa quelle categorie, è finita, smette la sua vocazione al compromesso con tutti, all’ascolto di tutti, all’attenzione per tutti. Siamo tutti nelle fogne, non su un piedistallo; o forse: dobbiamo immergerci tutti nelle fogne per poter tutti insieme alzarci più in alto.

Non par difficile capirlo. Ma c’è chi preferisce inorgoglirsi delle buone azioni, dei richiami contro l’indifferenza, dei paragoni con la seconda guerra mondiale e con la battaglia contro il nazismo. Forse c’è qualcosa di vero, ma si sono persi molti compagni di strada, su questa “via alla santità”. Di fatto aprendo le porte alla situazione attuale, alle “inutili cattiverie” dei porti chiusi, alle decisioni affrettate e dannose sulla protezione umanitaria.

Non siamo razzisti se sottolineiamo questo; forse semplicemente vogliamo un futuro non da santi, ma da cittadini (“vecchi” insieme a “nuovi”) di una società del benessere e dei diritti.
Nella confusione di una bontà declamata, questa prospettiva non si dà.

Per mostrare generosità — che non è bontà né carità — la società deve basarsi su fondamenta solide. Non sarà questo tipo di progressismo a garantircele.