In questo momento tragico, bisogna fare i conti anche con gli effetti collaterali sul piano dei diritti umani in tutto il Medio Oriente. In questo momento in cui assistiamo, orrore dopo orrore, alla guerra a Gaza seguita al pogrom di Hamas, c’è un altro popolo che annaspa per cercare di tenere i fari accesi sulla propria, di tragedia. In questi giorni è venuto in Italia Taghi Rahmani, attivista in esilio a Parigi dopo 14 anni di carcere e marito del premio Nobel per la pace Narges Mohammadi che non vede da 11 anni e non sente da 21 mesi. Ho provato a chiedere a Taghi Rahmani se i suoi figli capiscono la “scelta estrema” della madre e lui mi ha spiegato che Ali ne è fiero mentre Kian gli ha chiesto più volte se potrà sperare di rivedere i genitori di nuovo insieme. «Dopo che Narges ha preso il premio Nobel, anche mia figlia è diventata più attiva nella causa che stiamo portando avanti. Io penso e spero che un giorno capiranno e la perdoneranno», mi ha detto.
Vi racconto questo piccolo episodio perché per noi che godiamo di tutti i privilegi della democrazia è difficile, se non impossibile, comprendere il sacrificio di tanti attivisti iraniani che si sono immolati e persino dati fuoco per far sapere all’occidente cosa sia stato e cosa sia il regime degli ayatollah. Dovremmo stare più attenti a giudicare, a esprimere opinioni tranchant, senza prima cercare di capire cosa significhi vivere senza diritti. Narges Mohammadi ha chiesto di fermare la guerra a Gaza e suo marito – che ha cominciato a protestare quando al potere c’era ancora lo Scià in Iran ed è stato il motore per la causa sposata da sua moglie quando era una studentessa all’università – ha ribadito che questa sciagurata guerra israelo-palestinese influisce su tutto il Medio Oriente e impedisce all’occidente di focalizzarsi sui diritti umani perché la Palestina (e i diritti dei palestinesi) viene usata e manipolata da tutti i regimi per i propri interessi. Narges nel frattempo combatte la sua guerra e ora ha vinto una piccola battaglia. Oggi le guardie del carcere di Evin l’hanno portata in ospedale senza obbligarla a mettere il velo.
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La mobilitazione in Iran è diventata una resistenza quotidiana, fatta di gesti concreti, di hijab non indossati, di proteste che non cessano fra operai, studenti, artisti e minoranze etniche e purtroppo ignorate. Come continuano le impiccagioni: 23 le donne dall’inizio del 2023 su 665 persone giustiziate e, secondo il Centro Iran Human Rights, dopo la nascita del movimento Donna, vita, libertà, le esecuzioni per presunti delitti legati al traffico di droga sono aumentati del 93%. Un modo diverso per eliminare dissidenti, senza sfidare attivisti nel Paese e fra la diaspora, pare.
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Sono state ignorate anche le proteste per la sessione dell’Ufficio dell’ Alto Commissario per i Diritti Umani (OHCHR)gestita dall’Iran il 2 e 3 novembre.
E il 25 novembre arriverà una nuova sconsolante giornata mondiale contro la violenza sulle donne, ma tutti sembrano aver dimenticato i crimini contro le iraniane. Come quello che è successo ad Armita Geravand, perché molti di quelli che hanno solidarizzato per Mahsa Amini hanno semplicemente cambiato canale. Dal divano di casa, ovviamente.