La politica si occuperà mai con serietà e soprattutto con continuità anche di integrazione?
Dona a chi ami ali per volare, radici per tornare e motivi per rimanere
(Dalai Lama Tenzin Gyatso)
Amelia Earhart. Tekniska musset/Europeana/CC
La piattaforma di Radici compie due mesi, mentre fuori infuria la bufera. Il nuovo ministro dell’Interno, Matteo Salvini, alza i toni e poi li smussa senza soluzione di continuità. Siamo alle battute preliminari, perciò ogni analisi è prematura. Abbiamo una sola certezza: l’Italia è una penisola circondata da tre mari, come ci ripetevano alle scuole elementari, e l’Italia, dopo il crollo della Libia, è ancora sola, come ha giustamente osservato la Cancelliera Angela Merkel. In ogni caso Radici, con il suo fact checking, non farà sconti a nessuno. Nel frattempo continuiamo a guardare la luna e non il dito. Non ci facciamo confinare alle emergenze (che in questo momento non sono rappresentate dagli sbarchi), osservate con sguardo pietistisco o con trionfalismo giustizialista. Invece se alzate gli occhi, fuori dai salotti e dai palazzi, sarà semplice vedere quanto e come sta cambiando la società italiana. Siamo sicuri che una volta ribadito il concetto, scontato, che nessuno voglia affogare i migranti che sono riusciti a scappare dalla Libia, la nostra coscienza sia salva? I ghetti, le baraccopoli, gestite da mafie locali e straniere sono cresciute e sono state tollerate durante governi di qualsiasi maggioranza politica. Perciò i migranti pagati come schiavi sono un problema che riguarda tutti, nuovi e vecchi governanti, non fate i furbi. Eppure, tranne alcune lodevoli iniziative culturali, si è parlato tanto di integrazione – c’è addirittura un piano del governo precedente pieno di ottime intenzioni, a cui è stato dato solo parzialmente seguito – ma in concreto si è fatto poco. Perché? Semplice: noi sguazziamo nelle emergenze, dove ognuno ha la propria formula magica e tornaconto elettorale, ma temiamo la complessità. È questo il nostro vero baratro culturale. Altrimenti perché oggi, quando parlo delle nuove generazioni che stanno uscendo dalle università ed entrando nelle istituzioni (come dimostriamo nella nostra narrazione settimanale), tutti mi guardano scettici e chiedono: «Ma sono pochi, vero?». Resisto alla tentazione di mettere un emoji per manifestare il mio disperato disappunto e vado avanti.
I nuovi italiani sono in maggioranza in Lombardia
Nessuno (ancora una volta: perché?) ha analizzato i flussi elettorali dei nuovi cittadini con diritto di voto, ma sappiamo grazie al nuovo studio dell’Ismu, (alcune cifre erano già state anticipate nella prima newsletter di Radici dal demografo Gian Carlo Biangiardo, il 5 aprile scorso) i dettagli del trend in crescita delle nuove cittadinanze, che nel 2017 sono state 224 mila. Quello che ancora non sapevo era che nel 2016, dei 202 mila nuovi cittadini, 64 mila erano minori di 15 anni (quasi uno su tre), che fra due anni avranno 18 anni e la possibilità di andare in università. O davvero siete convinti che i nuovi italiani facciano ancora solo i lavori che i vecchi italiani non vogliono più fare? Inoltre, la Lombardia, polo attrattivo per i percorsi di studi e mercato del lavoro, è al primo posto per numero di nuove acquisizioni di cittadinanza: 54 mila, nel 2016. Una cifra che si è quadruplicata in soli 4 anni, seguita dal Veneto, Emilia Romagna, Piemonte. Il Lazio è penultimo nella classifica delle cittadinanze rilasciate. Ecco perché il nostro campo di studio è focalizzato sul Nord, dove il cambiamento è tangibile nei campus universitari, nelle aziende, nelle istituzioni. In Lombardia ci sono alcune facoltà universitarie che hanno interi corsi frequentati da nuovi cittadini, o da stranieri che poi diventeranno tali. Ve ne parleremo presto.
Majorino scrive a Radici
Intanto l’assessore alle Politiche sociali del comune di Milano Pierfrancesco Majorino ci ha inviato un contributo per spiegare la filosofia della maratona Insieme Senza Muri, focalizzata sull’integrazione.
Un pensiero laterale, Eureka
Questa settimana abbiamo accolto con entusiasmo la riflessione ficcante e arguta di Alessandro Aleotti, presidente del think tank Milania e presidente della squadra calcio Brera, in cui giocano alcuni ospiti stranieri dei centri di accoglienza, che prova (è dura, lo sappiamo) a demolire alcuni stereotipi sull’immigrazione. Aleotti scrive: «Alimentata dal recente fenomeno del flusso dei richiedenti asilo, la percezione che si è venuta a determinare degli stranieri nel nostro Paese continua a muoversi lungo la scellerata traiettoria di un pendolo che oscilla tra allarmismo e caritatevolismo. Su questo tragitto si consolidano i “luoghi comuni”, mentre le dinamiche che definiscono gli elementi reali del fenomeno migratorio restano “luoghi invisibili”. La rassegna dei “luoghi comuni” coincide ormai integralmente con la rassegna stampa». E non è esercizio di stile in punta di sarcasmo intellettuale. Si tratta di una riflessione che dovrebbe scuoterci dal torpore. Se solo non ci fosse quel terrore viscerale della complessità.
Panafricanismo in salsa italiana, anzi veneta
Ci sono molti modi di crescere in Italia per le nuove generazioni di immigrati. Per alcuni i Paesi dei genitori sono luoghi remoti e origini con cui non vogliono fare i conti. Un pensiero di fondo che non li preoccupa perché si sentono solo italiani, talvolta persino sovranisti. Alcuni invece tifano per il Rinascimento dell’Africa, di cui vogliono far parte. E pensano come trasferire know how e conoscenze da investire nel loro continente. Insomma aiutarsi a casa loro, a modo loro, aggirando i modelli di cooperazione falliti nel secolo scorso. E seguono con interesse la filosofia panafricanista reinterpretata da Otto Bitjoka che ha appena organizzato gli Stati generali delle associazioni africane.
Invece di tornare indietro, ho fondato l’African Summer School Italy
Fortuna Ekutsu Mambulu è arrivato a 18 anni in Italia per studiare Economia, e non è più tornato indietro. Si è inventato la African Summer School Italy con intellettuali africani che diano agli italiani una diversa visione, meno pietistica, dell’Africa.
Si occupa di terzo settore e della diaspora africana, ma si sente a suo agio solo in Veneto
Ada Ugo Abara, sebbene dica che si sente a casa solo in Veneto (e meno a Latina, dove ora lavora), ha riscoperto il valore delle sue origini all’Università e con alcuni amici ha dato vita all’associazione Arising Africans.
Smettetela di ascoltare tutti gli slogan e invece di tenere puntati gli occhi verso la Sicilia,
guardate oltre la siepe