«Il razzismo in America è come la polvere nell’aria. Sembra invisibile, anche quando ti fa soffocare, fino a che non arriva il sole», ha scritto Kareem Abdul-Jabbar che è stato un gigante del basket americano. Anzi sembra invisibile finché non ti fa soffocare, verrebbe da parafrasarlo dopo l’omicidio di George Floyd. L’eco della protesta in America ha innescato una reazione anche fra gli afroitaliani. Il movimento #blacklivesmatter, nato negli Stati Uniti, nel nostro Paese è seguito ancora da poche persone per ragioni sociali, demografiche e storiche, che non possono essere comparate a quelle americane. Cresce, però, il numero di giovani afroitaliani, soprattutto fra gli influencer – artisti, attivisti, imprenditori – che stanno cercando di innescare un dibattito sul razzismo contro i neri. Suggerisco a tutti di ascoltare il video del rapper bresciano Tommy Kuti che ha lanciato la campagna #prendiamolaparola per coinvolgere le seconde generazioni. Sul suo profilo Instagram ha scritto (con molti punti esclamativi):
Ho visto che da quando è stato ucciso ingiustamente George Floyd alcune persone (non abbastanza) hanno parlato di certi temi fingendo che i problemi ci siano solo in America! Ho pensato di creare questo hashtag #prendiamolaparola per prendere l’occasione e parlare dei problemi che affrontano i ragazzi nell’Italia del 2020! Credo che sia un po’ giunta l’ora dire la nostra! Guardate il video, commentate, condividete, ma soprattutto fratelli e sorelle, tirate fuori le palle e dite la vostra! E ricordo a tutti quelli che guardano e non fanno e dicono nulla che se si resta in silenzio in certi momenti, si è parte del problema!
Un dibattito che riguarda tutti, nessuno escluso. Le vessazioni non si limitano ai migranti che vengono dalla Libia, cosi come le discriminazioni non vengono subite solo dai braccianti o dai rider.
Questa settimana il nostro polemista Sindbad il Marinaio ha scritto un commento relativo alla polemica su quanto sia lecito condividere il video che mostra il corpo schiacciato e umiliato di George Floyd dai poliziotti bianchi, perché non è facile stabilire dove finisca la denuncia e dove cominci la brutalizzazione delle vittime di violenze. Ispirandosi al caso di Emmett Till che aveva appena compiuto 14 anni quando venne assassinato e torturato dal KKK a Money, in Mississippi, il 28 agosto del 1955. Sua madre, Mamie Till Mobley, impose che il funerale si celebrasse con la bara aperta affinché tutti potessero vedere cosa avevano fatto a suo figlio. E abbiamo anche rievocato alcune letture per approfondire cosa è accaduto e accade nei ghetti afroamericani.
La reazione di molti afroitaliani è stata graduale, ma si è messa in moto grazie alla generazione di attivisti nati o cresciuti in Italia. Anche se, va detto, sono più abituati a presidiare le piazze social che quelle reali.
La loro rappresentazione mediatica è sempre condizionata da molti, troppi, stereotipi che impediscono di prendere in considerazione il protagonismo dinamico delle nuove generazioni con background migratorio. Perciò rizziamo le antenne e seguiamo con attenzione le proteste della versione italiana del movimento #blacklivesmatter che si svolgeranno nel distanziamento sociale sabato 6 e domenica 7 giugno in diverse città, da Milano a Catania, con il motto “Black lives matter – il razzismo non fa respirare”. Senza farci, però, trascinare da parallelismi azzardati con il suprematismo, manco fossimo nel Minnesota.