Amelia earhart completes honolulu to oakland flight 1935

Amelia Earhart, 1935. Wikimedia Commons

Radici riflette sul concetto di accoglienza, che non è affatto scontata. Due storie ci raccontano l’immigrazione oggi in Italia. Un giovane richiedente asilo del Gambia, che viveva in provincia di Taranto, si è impiccato. Davanti a una tragedia, preferisco non aggiungere aggettivi. Non è la prima volta che accade. E non accade solo in Italia. In Germania il tasso dei suicidi fra i richiedenti asilo è molto alto, ad esempio. Perché oltre il timore e la vergogna di dover tornare indietro, c’è il disagio psichico di chi può aspettare oltre due anni una risposta per poter ricominciare ad avere un futuro. Un disagio che si aggiunge spesso alla depressione che arriva dopo l’odissea del viaggio. E per questo motivo ci sono diversi progetti di etnopsichiatria per sostenere giovani sradicati che non sanno cosa fare della loro vita, una volta arrivati in Europa.

Elizabeth Arquinigo Pardo invece è peruviana. Vive in Italia da diciotto anni. Si è laureata, ha un lavoro e ora, con il nuovo decreto sicurezza, vede allontanarsi ulteriormente la meta a cui ambisce da troppo tempo: la cittadinanza italiana. E in una lettera aperta chiede al ministro dell’Interno perché abbia aumentato a quarantotto mesi l’istruttoria per diventare italiani. E chiede: «Cosa è successo signor ministro? Noi immigrati regolari e integrati non eravamo suoi amici?». È successa una cosa semplice. L’accoglienza degli immigrati non è un scontata. Pochi giorni fa a una conferenza al Memoriale della Shoah, lo scrittore e psicoanalista Massimo Recalcati ha spiegato che la pulsione naturale dell’uomo lo spinge alla difesa dei propri confini, della sua identità e a respingere il diverso. Sebbene senza l’integrazione ci sia la morte. È così? Ho assistito in diversi archi temporali agli sbarchi in Sicilia. E ho visto la diffidenza e ostilità trasformarsi in generosa accoglienza e contagio emotivo, per poi osservare di nuovo timore e ostilità. E non c’entra solo la propaganda del governo. Forse si tratta di timore esistenziale verso colui che crediamo possa essere un intruso, se non direttamente una minaccia.

Cambiare narrazione, come cerca di fare Radici, può modificare la percezione, ma è solo un’attitudine culturale a cercare di cogliere la complessità che ci permette di essere aperti al cambiamento. Considerazione banale, ma per me necessaria davanti a queste due storie. Indipendentemente dalle pulsioni verso quello che io chiamo melting pot in salsa italica, perché sono ancora in cerca di un sostantivo adatto che possa descrivere la trasformazione multietnica italiana, mi pongo un’altra domanda. Ho letto fiumi di inchiostro per manifestare l’indignazione verso il trattamento subito dal sindaco di Riace, Domenico Lucano, ma non ho visto nessuno organizzare manifestazioni di protesta verso l’ignominia della gendarmeria francese che ha scaricato migranti anche minorenni come rifiuti oltre il confine italiano. E non da oggi. Perché l’accoglienza deve essere sempre ridotta a una valutazione della propria appartenenza politica? E qui ritorno a quanto ho raccontato nella mia prima newsletter: un signore di origini maghrebine che si era infastidito perché avevo intralciato il suo passaggio, mi ha urlato: «Torna a casa tua». Ha introiettato la propaganda politica o anche per lui che è stato accolto, immagino molti anni fa, l’accoglienza non è scontata? Non voglio tirare in ballo Rousseau, l’uomo nasce buono ma poi si corrompe eccetera eccetera, però è arrivato il momento di riflettere sul valore dell’accoglienza.

 

Tim Parks: l’accoglienza è ammirevole, ma deve essere una libera scelta

Tim Parks ha una visione diversa rispetto alla maggior parte degli scrittori che abbiamo intervistato. E sull’accoglienza ci ha detto: «È una cosa ammirevole accogliere, ma deve essere una scelta libera di chi accoglie. Non esiste un diritto universale che dice che io posso andare adesso, diciamo, in Russia, e costringere i russi ad accogliermi. Poi accogliendo liberamente si può anche incoraggiare gli indecisi a provare a venire. Sono dinamiche complicate. D’altra parte, dal momento che hai deciso di accogliere qualcuno, è inutile far soffrire quella persona, come se dovesse pagare un prezzo tremendo per entrare nella nostra realtà».

 

La casa dei ricordi

Amilca Ismael è nata a Lourenço Marques (Maputo) in Mozambico nel 1963. Nel 1986 ha sposato Massimo e si è trasferita in Italia, anzi a Solbiate Olona, dove a quei tempi tutti la guardavano con curiosità. Oggi lo sguardo che sente su di sé e sui suoi figli si è trasformato in diffidenza e timore. Lei che è stata accolta, ha restituito la benevolenza, facendosi carico della memoria degli anziani. E, per evitare l’oblio dei loro ricordi, li ha conservati narrandoli in un libro. Se anche la nostra memoria viene affidata a una donna considerata straniera, possiamo ancora ignorare il cambiamento?

 

34.361 morti nel Mediterraneo. Chiamarli per nome non basta

L’elenco sterminato degli sterminati durante il loro viaggio verso l’Europa tra il 1993 e oggi è stato stilato con cura certosina dalla United for Intercultural Action, una rete europea di cinquecentocinquanta organizzazioni antirazziste di quarantotto Paesi. L’elenco fa impressione, ma per molti è soltanto una cifra, buona per una statistica e mille dibattiti. Bisognerebbe andare oltre gli aridi numeri, prima di parlare di migranti e di profughi. Come ha fatto Bedwyr Williams, artista inglese che in questi giorni espone una sua opera alla galleria Saatchi di Londra. Un semplice scaffale bianco con dentro quarantaquattro paia di scarpe usate, le sue scarpe. In cima all’installazione solo una scritta: «Prima di giudicarmi cammina un miglio con le mie scarpe». Ce ne parla il nostro polemista Sindbad il Marinaio.

 

Dona a chi ami ali per volare, radici per tornare e motivi per rimanere

(Dalai Lama Tenzin Gyatso)