Siamo diventati razzisti? Radici non sposa proclami né ha certezze inconfutabili, ma si limita ad offrire spunti di riflessione. Anche sul dibattito innescato da numerose aggressioni contro gli immigrati. Con esperti che riflettono sul tema della razza. E dando la parola ai protagonisti per creare una narrazione sull’immigrazione senza filtri. La ricostruzione della dinamica dell’aggressione all’atleta italiana di origini nigeriane, Daisy Osakue, sembra aver escluso il movente razziale e averlo ricondotto a teppismo. Perciò sono andata a rileggermi tutte le sue interviste, gli editoriali e i commenti indignati. Fatti frettolosamente prima di aspettare la ricostruzione dei fatti, prima di sapere che la banda dell’uovo aveva colpito prima un pensionato e un gruppo di donne bianche. E sono rimasta colpita dal concentrato di certezze spacciate come verità assolute.
Il clima è cambiato è il refrain di queste settimane, in cui abbiamo assistito a diversi episodi di violenza verbale e fisica nei confronti degli immigrati e persino a un omicidio. Per i detrattori della nuova maggioranza, in due mesi di governo gialloverde si è scatenato l’inferno xenofobo, mentre i sostenitori minimizzano o, peggio, giustificano.
Anche in questo caso, come sugli sbarchi, è la percezione a sovrastare i fatti. E i fatti ci dicono che le discriminazioni razziali, come tutti i temi esplosivi, vanno maneggiate con prudenza. Come dimostrano i dati dell’associazione Lunaria, che nel suo terzo libro bianco sul razzismo ha contato duemilacinquecentosessantasei casi di discriminazioni e violenze razziste già fra il 2011 e il 2014. Avvenuti in una fase politica ed economica difficile, ma non guidata da un governo populista. Centosessantanove i casi tra l’1 gennaio e il 31 marzo 2018. Quindi affrontiamo il tema, senza timore né ipocrisie. E chiediamo pure al ministro dell’Interno di dosare i toni e non minimizzare gli episodi di violenza, ma stiamo attenti alle generalizzazioni e alle amplificazioni di aggressioni che possono indurre a emulazioni. Siamo un Paese razzista?
Ogni volta che, attraverso Radici, diamo la parola agli immigrati, loro ci dicono quasi sempre di essere grati all’Italia. Certo, noi per scelta editoriale (e per il desiderio di contrapporre un’informazione laica a quella emergenziale), ci focalizziamo di più sulla maggioranza degli immigrati che si sono realizzati. E non sulla minoranza, quella rimasta ai margini della società e spesso dedita ad attività illecite, che creano disagio, insofferenza e intolleranza. E ogni volta che pubblichiamo una delle tante e ormai ordinarie storie edificanti, non riceviamo insulti, anzi. L’ultima è stata quella del primario di cardiologia pediatrica di Parma, Bertrand Tchana. Il nostro video – in cui osservava la pigrizia fra i suoi allievi occidentali e la velocità di quelli stranieri – è stato visualizzato da dodicimila persone, condiviso ed apprezzato nell’arco di pochi giorni. Perché? Perché se sono loro a metterci la faccia, tenuti fuori da contese politiche e strumentalizzazioni, la percezione cambia. Ed è positiva. Perciò è importante che siano protagonisti. Non solo delle loro vite (a questo ci pensano da soli, come abbiamo dimostrato nel nostro racconto settimanale), ma anche della rappresentazione mediatica. Senza filtri.
La razza umana è una sola. Repetita Iuvant
Il professor Guido Barbujani, docente di Genetica all’Università di Ferrara, autore del saggio L’invenzione delle razze. Capire la biodiversità umana (Bompiani, 2006) spiega in un’intervista a Fabio Poletti perché il nostro DNA è identico al 99,9% a quello di qualunque sconosciuto. «Perché in una specie ci siano le razze, bisogna non solo che le differenze ci siano, ma che i suoi membri formino gruppi biologici distinti: e nell’uomo non è così. A seconda dei criteri usati – colore della pelle, tipo di capelli, forma del cranio, o varianti del DNA – la stessa persona finisce in razze diverse in compagnie diverse, per cui nessuno sa dire quante e quali siano le razze nell’uomo. Dopo due secoli di tentativi inutili di produrre il catalogo delle razze umane, antropologi e genetisti hanno capito che non aveva senso e hanno smesso».
A mio padre: storia di un immigrato filippino e di un film che ha vinto un premio a Venezia
Questa settimana pubblichiamo la lunga storia di Gabriel Laderas, regista napoletano di origine filippine. Insieme a un compagno di corso della Scuola di Cinema, ha girato un film sulla storia di suo padre, Miguelito ‘Mike’ Laderas, che nel 2017 ha vinto il Premio MigrArti per la Migliore Sceneggiatura, nell’ambito della 74ª Mostra del Cinema di Venezia.
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