Il 10 settembre dell’anno scorso l’aereo Alitalia – un volo diretto da Mosca a Roma – si chinava un po’ di lato. Come un cacciatore di perle, prima di un salto difficile, si preparava a tuffarsi nelle onde appena tremolanti delle luci di Fiumicino. Da quel giorno dovevo ricostruire la mia vita in Italia. Un’altra pagina è stata voltata.

Così, nel 2006 cercavo di fare un resoconto del mio primo anno in Italia, ponendomi ancora molte domande sulle mie esperienze da immigrata. Nel 2003, cittadina russa, vinsi una borsa di studio con gli Stati Uniti, in un programma di scambio che si chiama Fulbright. Un riconoscimento accademico prestigioso che mi permise di completare il master in Tecnologie per la Didattica all’Università di Atlanta.

Avevo già vissuto in America un anno di liceo, e tornandoci non avevo sentito lo shock culturale. Anzi, presto incontrai quello che sarebbe diventato mio marito, un dipendente dello Stato italiano in missione all’estero. Tutto fu molto veloce: abbiamo deciso di sposarci prima che finisse l’anno.

Così, con il master in mano, nel 2005 mi sono trasferita in Italia per amore. Venivo dall’Europa dell’Est, conoscevo bene il mondo anglosassone, ma di cultura mediterranea non sapevo nulla. Studiavo l’italiano da maniaca, ma percepivo che non era sufficiente. Come se mi fossi trovata in mezzo al mare, con le parole che scambiavo con le persone intorno a me che andavano sott’acqua e sbattevano contro un iceberg invisibile. Allora, non sapevo che la metafora dell’iceberg culturale esiste davvero.

Significa che gli eventi che osserviamo in superficie hanno radici davvero importanti. Vediamo costumi e usanze diversi dai nostri, ma non ci immergiamo nelle acque scure e profonde, per capire come e perché i secoli hanno formato noi e loro proprio così.

Percepivo che la mia storia personale fosse da riscrivere dentro una storia più ampia, ancora poco chiara, ma non avevo nessuno che mi guidasse alla luce, passo dopo passo. Non ero isolata dal punto di vista fisico, ma “la brava gente” intorno a me non faceva da psicologo o consulente di intelligenza culturale. La maggior parte di loro non aveva mai vissuto all’estero. Io, che credevo di poter navigare in acque sconosciute, con due lauree alle spalle di cui andavo fiera, mi sentivo naufragare giorno dopo giorno. Le comunità di networking nel Lazio del 2005 non erano diffuse, lo stesso Facebook era appena nato. Nel frattempo cercavo di capire meglio l’accento aretino. 

Credo nel detto aiutati che Dio ti aiuta e non amo la filosofia del tutto è dovuto.

Riflettendo però sulle mie esperienze e quelle degli amici immigrati fatti negli anni da seguire, ho notato che in Italia manca ancora una comprensione di base su come l’immigrazione sia un processo naturale, che diventerà patrimonio comune solo nel corso del nostro secolo.

C’è anche un aspetto molto più serio: senza immigrati, molti Paesi non hanno crescita economica. Quando si parla di attrarre forza lavoro in Italia si fa riferimento mediamente a quella non particolarmente qualificata. Et voilà… “extracomunitario” è diventato un nuovo sostantivo. Con la sua connotazione.

Fra i diversi episodi in cui sono stata trattata da “extracomunitaria” ne ricordo uno in particolare. Quando stava nascendo mia figlia, durante il parto cesareo con anestesia epidurale, un’ostetrica presente in sala operatoria mi disse: «Guarda, la pancia ti è già quasi scesa»; «Eh, la ragazzina ha 28 anni»; «Ah, ma queste vengono qui e si sposano subito». Morale, la conversazione diventava sempre più animata. Non ero in vena di rispondere. Alla fine, il tavolo operatorio non è il miglior posto per le discussioni…

La vita nel frattempo andava avanti. Ero finalmente riuscita a scoprire di non poter diventare una technology coordinator presso alcuna scuola italiana, un lavoro simile semplicemente non esisteva. Misi il master americano nel cassetto e presi la terza laurea, in Italia. Ho letto Dante in originale, studiato la psicologia junghiana e la storia europea. Arrivò anche il secondo figlio e il primo lavoro da docente di lingue straniere. La Professional Women Association (PWA) di Roma creò il proprio primo sito. Mi coinvolse con un grande desiderio di fare: fui premiata per il contributo organizzativo nel 2014. Dovevo stare attenta a non far traboccare il bicchiere che una volta era vuoto.

Quando voliamo, con qualunque compagnia, ci ricordano con insistenza: prima indossate la vostra maschera d’ossigeno, e poi aiutate gli altri. La sensazione di respirare bene e poter aiutare qualcuno venne anni dopo quel volo Mosca-Roma, all’incirca quattro anni fa. Lavoravo per un’azienda spagnola, facendo il tutor d’inglese per oltre 600 clienti di 11 nazionalità. In quell’occasione, mi ero resa conto di aver sviluppato una sensibilità che andava oltre il poter comunicare con il mondo anglosassone o mediterraneo. Avevo clienti sudanesi, kazaki ed ungheresi, per esempio.

Arrivare a capire diverse nazionalità è stato illuminante. Gradualmente il puzzle si andava completando. Mi sembrava un vero peccato non poter condividere le mie esperienze con altri. Da docente, mi venne spontaneo pensare a progettare un programma che avrebbe sensibilizzato gli studenti universitari, in primo luogo sull’importanza di un’efficace comunicazione cross-culturale.

Volai a Berlino, dove ho ottenuto un certificato da formatrice nel campo dell’intelligenza culturale. Si chiama proprio così: è semplicemente la nostra capacita di trattare con una persona di cultura diversa, anche professionale, o generazionale, per raggiungere un obiettivo comune.

Significa essere consapevoli di chi siamo, che cosa portiamo a tavola e che cosa accettiamo da uno sconosciuto. Un tentativo di convivere in maniera urbana e civile, insomma. Magari avessi conosciuto questo approccio dieci anni fa… Avrei decisamente risparmiato tempo e salute lungo il mio cammino verso l’integrazione.  E sono sicura che la mia storia non sia unica.

La CQ ha anche un lato tangibile. Capire l’Altro è utile per istruire, diminuire la criminalità, migliorare la produzione e vendere meglio. In generale, non sento di esagerare dicendo che i giovani di oggi hanno bisogno dell’intelligenza culturale per viaggiare, studiare e lavorare con stranieri dentro e fuori dall’Italia.

Trovo sia un peccato che le scuole di business italiane che ho contattato non la pensino così. Invece, il Project Management Institute e qualche ente statale hanno mostrato una diversa e maggiore comprensione dell’argomento. Spostandomi a Monaco di Baviera per motivi familiari, mantengo stretta la connessione con l’Italia. Nel 2022 si torna a Roma e questa volta lo posso dire: a casa.

Spero che le cose cominceranno a cambiare e forse un giorno un nuovo ministro italiano dell’ Interno parlerà dell’importanza della CQ e posterà il suo discorso su Facebook. Proprio come ha fatto il suo equivalente di Singapore. Io, intanto “walk my talk” (faccio ciò che dico). Cresco 2 figli multilingue, aiuto gli studenti stranieri a combattere lo shock culturale in Germania e lavoro con gli expat russi, online. Non mi stanco di ripetere che le prospettive diverse ci arricchiscono la vita. Non siamo obbligati ad adottarle, ma così facendo non spegniamo un attimo l’autopilota.